Più di un anno è passato dalla fine delle indagini di Rust Cohle e del suo partner Marty Hart, che hanno mesmerizzato davanti al piccolo schermo gli spettatori di tutto il mondo, conquistando i favori di pubblico e critica.
I motivi sono facilmente identificabili: il lead actor è Matthew McConaughey, negli ultimi anni divenuto uno dei volti più influenti e apprezzati di Hollywood, e il regista è il “golden boy” Cary Fukunaga, responsabile di momenti ispirati e d’impatto come il lunghissimo e ipnotico piano sequenza nel finale dell’episodio Who Goes There. McConaughey e Fukunaga insieme riescono a elevare anche le parti meno convincenti delle ambiziosissime, ma spesso fumose, sceneggiature del creatore Nic Pizzolatto, infarcite di dialoghi esistenzialisti e salti temporali almeno quanto lo sono di luoghi comuni.
Con la decennale vicenda dello “Yellow King” conclusa e archiviata, il buon Nic Pizzolatto tenta di bissare il successo della prima annata con una nuova storia autoconclusiva, che abbandona l’ambientazione suggestiva di New Orleans per approdare nell’assolata e corrotta California. Nel cast tutte facce “nuove”, per modo di dire: a ricoprire i quattro ruoli principali abbiamo Colin Farrell e Vince Vaughn in vena di resurrezione, affiancati da Rachel McAdams (Regina George di Mean Girls) e Taylor Kitsch (Tim Riggins di Friday Night Lights). Diversi anche i registi, stavolta al plurale, tra cui Justin Lin di Fast & Furious. Con McConaughey e Fukunaga andati, ma ancora coinvolti nella serie come executive producer, è su Pizzolatto che adesso grava la responsabilità della tenuta creativa della serie.
Forse è proprio per questo che la seconda stagione sceglie di cambiare non solo collocazione geografica, ma anche “modus operandi”, per distanziarsi sin da subito ed evitare il paragone diretto. Il racconto, infatti, abbraccia la coralità, focalizzandosi su quattro protagonisti anziché due, tutti tormentati da fantasmi del passato e da qualche stereotipo di troppo. Viene abbandonata così l’ambiziosa contrapposizione di piani temporali, uno degli elementi più azzeccati dello scorso ciclo.
Una narrazione più compatta e lineare, quindi, ma anche meno ambiziosa, tanto da rendere maggiormente visibili i difetti della penna di Pizzolatto, che, nel rifiutarsi di giocare al rialzo, potrebbe per assurdo aver commesso il suo errore più grande. Grazie al cielo, resta intatta la maestosità della messa in scena e delle performance interpretative, una vera gioia per gli occhi.