Prima che Nathan Drake diventasse un ostinato cacciatore di tesori giramondo alla ricerca di tombe da predare e coinvolto in avventure che sembrano uscite da un gioco della PlayStation, era solo un ventenne newyorkese qualunque. Avete presente il tipo: ha l’aria da star del cinema, gli piace fare cocktail facendo volteggiare le bottiglie dietro il bancone, è super atletico e ha un fratello maggiore che non vede da anni. È anche un patito di Magellano, e crede alla leggenda secondo cui l’esploratore avrebbe sepolto un tesoro da qualche parte nel mondo mentre solcava gli oceani. Finché un periodo di silenzio particolarmente prolungato non sembra dirgli che potrebbe essere successo qualcosa al fratello di Nathan.
Ed ecco che nella sua vita fa il suo ingresso Victor “Sully” Sullivan, una sorta di figura paterna che potrebbe aiutare il ragazzo rimasto orfano da piccolo a ritrovare il suo unico parente stretto ancora in vita. Ovviamente scopriremo presto che anche Sully si è messo sulle tracce del tesoro di Magellano; se Nate lo aiuterà a localizzarlo, allora lui lo accompagnerà nella sua ricerca del fratello scomparso. La loro caccia sarà costellata di alleati, nemici, milionari cattivi, doppi giochi, escursioni internazionali, e una rissa dentro un Papa John’s a Barcellona: perché no? Per i gamer, questi nomi e queste scene d’azione in cui entrano in gioco triangoli, quadrati, XS e OS — tradotto: corse, salti, analisi degli indizi e una combo di inseguimenti e combattimenti – possono essere esaltanti. Tutti gli altri potranno invece provare un senso di déjà-vu. Abbiamo già visto tutte queste cose in un sacco di scenari simili, e centinaia di volte prima di questa.
Un po’ raschiamento di barile, un po’ muscolarissimo kolossal a misura di star e un po’ scommessa della Sony per piazzarsi in quel campo che sta a metà tra sala e streaming, Uncharted non è il peggior tentativo mai visto di trasferire un amatissimo videogioco sullo schermo: è solo l’ennesima prova del fatto che queste operazioni sono sempre dei giochi a somma zero. Il film parte letteralmente altissimo: facciamo la conoscenza del giovane Drake (interpretato da Tom Holland) mentre è appeso a una serie di container che penzolano da un aereo. È una delle missioni di Uncharted 3, e il regista Ruben Fleischer (Zombieland) la mette in scena come se gli spettatori si ritrovassero davvero in medias res dentro quell’avventura: Holland salta da un container all’altro evitando giganteschi oggetti volanti e schivando pallottole. È un incipit divertente e caotico, e ci fa subito capire che il nostro futuro avventuriero non ha ancora ben capito come si fa l’eroe. Quando finalmente riesce a risalire a bordo, Drake viene immediatamente investito da un’auto sportiva (!), ed eccolo ripiombare nell’azzurro del cielo. È quello che la maggior parte degli spettatori chiamerebbe un ottimo inizio.
E poi… tutto si trasforma immediatamente in quella che sembra una serie di scene espositive o montate a casaccio, momenti action riciclatissimi, sequenze alla Die Hard e infinite citazioni di altri (e migliori) blockbuster. Il fatto che Holland sia non solo un novello idolo del cinema ma anche un tipo in grado di sfoggiare ottime doti atletiche – c’è un certo film sempre targato Sony a dimostrarlo – dimostra che lo Studio vuole spendere bene i suoi soldi, e che vuole trattare questo divo venticinquenne non solo come un supereroe, ma più in generale come nuovo volto dell’action del XXI secolo. Questo prequel della fortunatissima serie PS3 sembra dunque più un provino generale che un vero e proprio primo capitolo di un nuovo franchise.
Assediato da un sonoro assordante e dai soliti effetti visivi digitali, Holland sembra capace di reggere sulle spalle da solo il peso di questa macchina da soldi malamente spesi. Non si può dire lo stesso di Sully, il mentore dai capelli ormai grigi interpretato da Mark Wahlberg, il cui aspetto e modo di fare sembrano totalmente inadatti al ruolo. La sua intera performance può essere riassunta con: sono quello che cerca di diventare ricco grazie a un mitico tesoro; tu invece sei l’altro protagonista. Antonio Banderas è il cattivo d’ordinanza con il solito accento esotico, ed è la dimostrazione che, se è vero – e lo è – che lo jamón ibérico è buonissimo, perde completamente il suo sapore se accompagnato a quelli che sembrano dei puri e semplici avanzi. Sophia Ali (Grey’s Anatomy) e Tati Gabrielle (The 100) sono rispettivamente la predatrice di tesori con l’aria da pirata e la solita assassina/femme fatale. Entrambe meriterebbero più spazio.
Lasciamo questo film ai fan di Uncharted. I videogame sono una forma interattiva di intrattenimento: cercare di rinverdire un canone già abusatissimo con “giochi” che restano invece del tutto passivi rischia di tradursi in una mera operazione da cosplayer. I videogiochi della serie Uncharted hanno avuto l’intuizione di portare i gamer dentro un grande film d’avventura old-style, e lasciare che lì potessero correre, sparare, saltare come se fossero i veri protagonisti di quelle avventure. Nella trasposizione cinematografica qualcosa, se non tutto, è andato perso. La Sony vorrebbe fare della serie PlayStation un cult anche sul grande schermo. Ma più segui la ricerca di Drake, più ti sembra di vedere un film che potrebbe intitolarsi Un Tomb Raider dell’arca perduta alla ricerca del National Treasure dei pirati dei Caraibi, starring Spider-Man. Uncharted sembra la fotocopia a misura di seconde generazioni di una compilation di vecchie hit. È sicuramente meglio vedersi qualche scena dei film originali.