La nostalgia è diventata una faccenda molto ambigua da quando si è capito che può essere estremamente redditizia. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a ripescaggi e revival di ogni tipo, dagli anni ’70 agli ’80, ai ’90. Un’intera industria culturale costruita intorno al nostro bisogno di ricordare. O, meglio ancora, di inventare i ricordi, di ricamare sul passato per ritrovare un’identità che ci sembri più autentica e affascinante (o semplicemente sopportabile) di quella attuale. Tutto ciò che eravamo. Tutto ciò che si è perso. Il mito di ciò che non può più tornare e che – nella sua impossibilità – acquista nuovo splendore, un confortante lustro vintage. Potrebbe apparire un libro scritto sulla scia del rimpianto Muro di casse di Vanni Santoni, ricostruzione insieme personale e corale della “più importante avanguardia culturale e giovanile degli ultimi 25 anni”, ovvero: la cultura rave, free tekno. Ma a ben vedere è proprio il contrario. E questo perché parlare dei free party col sentimento nostalgico e invecchiato che si genera attraverso la disillusione, e si coccola nella distanza, sarebbe un tradimento non solo verso se stessi, ma anche verso questo strano oggetto che si cerca di raccontare, questa “cosa” – come la chiama Vanni – “esplosiva, multiforme, sfuggente ed entusiasmante” che ha avuto luogo in Europa tra il 1989 e oggi.
“Potevamo creare ovunque la bellezza”, scrive, “in ogni angolaccio, sotto a ogni cavalcavia, poteva sgorgare una fonte di meraviglia. Ogni periferia, ogni cittadina di provincia senza più guizzi poteva tornare a splendere e ribollire per una notte”. Una psico-geografia collettiva, che faceva gioiosamente saltare i confini. Eppure – proprio in virtù della sua natura situazionista e inafferrabile – più di qualsiasi altro fenomeno giovanile, la “cosa” ha subito una mistificazione mediatica, violenta e denigratoria. Un accanimento che neanche la scena hippy e la scena punk sono riuscite a guadagnarsi con un tale carico di livore. Il giornalismo (sia di sinistra che di destra) negli anni ha solo sparato a zero contro la cultura rave, l’ha liquidata come il Male, risparmiandosi persino l’odioso afflato paternalista di chi è pronto a farti una ramanzina e rimetterti in carreggiata. Ma forse, per queste stesse ragioni, la free tekno è riuscita a non trasformarsi in una versione al bromuro – moralmente e politicamente accettabile – di ciò che è stata. Insomma, quella da guardare con gli occhi malinconici del rimpianto. Quella della pacca sulla spalla dopo la ramanzina. I grossi festival tekno a pagamento, le serate di elettronica con i dj superstar che se la tirano, non sono l’attualizzazione contemporanea dei free party, sono proprio un’altra cosa.
I rave sono sempre stati gratis. Orizzontali. Autogestiti. Antigerarchici. Questo non per dire che non esistano contraddizioni all’interno della scena, o di nuovo per rimpiangere una purezza perduta. Vanni ci mette bene in guardia da questa seduzione. Non esiste nessuna purezza. La purezza è un altro tranello al pari della nostalgia, con il rischio di “una continua e futile sacralizzazione dell’autenticità”. La stessa utopia situazionista, l’ideologia intorno alla quale si è creata la scena rave, le TAZ (le zone temporaneamente autonome) di Hakim Bey, sono strutturalmente contradditorie. Qualsiasi sottocultura nasce nella contraddizione del sistema in cui vive, e molto spesso i media si divertono da matti a fare le pulci a questi inciampi di incoerenza, a sgamare le magagne, a sottolineare i conti che non tornano, con il gusto di buttare all’aria interi movimenti. Ma ognuno ha le sue forme di divertimento. Chi ama fare le pulci, chi ballare per giorni interi. “E se fosse solo una forma molto avanzata di svago?”, ci si chiede nel libro. “Lo è. Anzi, proprio perché lo è, perché non c’è dottrina se non quanto viene dimostrato attraverso la pratica, il culto che officiavamo era qualcosa di vero. Perché sognare un quarto d’ora di celebrità se potevi prenderti dieci o venti ore al centro dell’universo? Vaffanculo a tutto e tutti, no?”. Muro di casse cerca di restituire la complessità che è stata sottratta alla scena rave, con tutte le contraddizioni e persino le mancate rivendicazioni che ne hanno decretato la condanna: “Sai cosa ti dico, ci è mancata la forza di rivendicare le droghe, abbiamo messo su un pudore che ci ha impedito di dire chiaro e tondo che cosa voglia dire sentire un’energia nuova e strutturata attraversarci come se arrivasse a noi da chissà dove, ballare nel caos stellante, godere dei sensi esplosi, farsi baciare all’alba dal sole”. Con la sua forma ibrida di romanzo pastiche – le voci che si riconcorrono nei ricordi, gli inserti saggistici o quelli in versi – Muro di casse riflette il sincretismo instabile della free tekno (antagonismo punk, visionarietà hippy, derivazioni musicali della club culture, sound system da reggae giamaicano) e mette in scena tre personaggi: ognuno con un approccio differente all’universo magmatico dei free-party. Abbiamo Iacopo – la dimensione sensuale; Cleo – la dimensione intellettuale e teorica e Viridiana – la dimensione più olistica e spirituale. E poi c’è la voce narrante che prova a tenere le fila – molto aggrovigliate – delle loro storie, e di tutte le altre. Restituire complessità è solo una parte dell’ambizione di Santoni, perché ciò che vuole fare nel suo romanzo è restituire qualcosa di più difficile e scandaloso – la bellezza dei rave, lo splendore estemporaneo, ma oscenamente intenso degli incontri e della fratellanza: “Il battito è quello del cuore di una mamma gigantesca e un po’ mostruosa, e la mano che mi prende il polso quella di una sorellina, e sì, andiamo, andiamo, chiunque tu sia nel ricordo”.