Ci sono delle cose belle, da salvare, del Talento del calabrone, secondo film di Giacomo Cimini. Ad esempio: le riprese notturne di Milano. Droni belli, poetici. Era giusto iniziare a parlare del film elogiando i lati positivi, solo che si fa difficoltà a trovarne. Lo stesso Sergio Castellitto, che è un attore eccezionale, non basta da solo a reggere un’ora e mezzo di un film che non sta in piedi mai. Dispiace. Dispiace perché il cinema italiano avrebbe bisogno di un film del genere, un vero thriller, fatto bene. Invece poi ci ritroviamo sempre tra questi dialoghi che sembra una recita del mercoledì sera in un oratorio di provincia, queste scene senza suspense, questi personaggi inconsistenti, queste battute telefonate. Il talento del calabrone sa di una di quelle operazioni con un basso budget in cui si chiama un attore di rilievo per avere una buona eco mediatica sul film, si spendono tutti i soldi per lui e poi si costruisce la sceneggiatura, il cast, tutto il film, tirando via, sperando che basti l’interpretazione del campione. Non basta mai. Pure Castellitto, tolti un paio di momenti in cui brilla di luce propria, appare lasciato a se stesso.
Accolto da una buona critica sulla stampa nazionale (quando mai quella critica non è buona?) sbarca nel silenzio dei like e dei trend su Amazon Prime Video quello che potrebbe essere uno dei titoli di punta del palinsesto invernale e invece sembra una versione noir di Distretto di polizia, privato però da Ricky Memphis, Giorgio Tirabassi, Marco Marzocca. Andiamo oltre. Si racconta la storia di Steph (Lorenzo Richelmy), un dj di Radio 105 – vera protagonista subliminale della storia, nominata in lungo e in largo – amato da tutti non si sa per quale merito, visto che parla con frasi dei Baci Perugina, ha un’unica espressione facciale e fa il figo senza motivo. Una sera come tante, Steph riceve la telefonata in diretta di un attentatore che minaccia il suicidio. È uno scherzo? No. Castellitto (attenatore, hacker, genio della matematica, intelligentissimo pianificatore) schiaccia un tasto del suo computer di bordo ed ecco che salta in aria l’ultimo piano di un grattacielo sullo sfondo dello studio, facendo il rumore di un petardo da bambini. Era una scena chiave, avrebbe dovuto scioccare. Invece niente, l’esplosione è talmente finta che non provoca un sussulto, un attimo di pathos.
Quando si vuole veramente scardinare qualcosa nello spettatore, di solito lo si fa col lavoro sui personaggi. Nel Cavaliere oscuro di Nolan, il Joker tiene in scacco la città coi suoi attentati e le sue minacce, ma dietro c’è un Heath Ledger della madonna. Sono la sua follia, la sua rabbia, le sue espressioni che nascondono una vita di dolore a scatenare nello spettatore un’emozione. Nei film americani ci sono gli Squad, le squadre speciali, gli elicotteri, i cecchini. Qui c’è una poliziotta in abito da sera (Anna Foglietta, che non sfigura mai) costretta dal copione a caricare di continuo una pistola che chiaramente non userà mai e a urlare la famosa frase che fu dei vari Eastwood, Stallone, Norris, De Niro: «Ti faccio saltare le cervella!».
Il film è tremendo. I dialoghi sembrano quelli dei bambini che giocano a guardia e ladri. I personaggi parlano tutti la stessa lingua senza inflessioni. Carlo, il personaggio di Castellitto, che sappiamo essere nato a Pistoia (città toscana dal dialetto marcatissimo), parla come Castellitto in tutti i film di Castellitto. Siamo a Milano e nessuno ha un dialetto, c’è un silenzio di fondo che rende l’ambiente della radio finto, la città vuota, un immobilismo per cui nessun personaggio sembra mai minimamente credibile. Non si capisce perché voler fare un film realistico senza rispettare alcun principio della realtà. Mentre Milano è su tutti i top trend del mondo, lanciata nei tg e nelle dirette straniere, in strada la gente cammina tranquilla senza manco una sirena, dico una, che faccia pensare a una metropoli sotto attentato. Eppure ne abbiamo viste negli ultimi anni, tutti sappiamo che tipo di atmosfera dovrebbe esserci. Nella sede di Radio 105 del film, invece, ci sono due carabinieri in divisa (uno viene picchiato da Steph) e la poliziotta. Stop. L’operazione la coordinano tra di loro, dialogando con l’attentatore improvvisando nozioni di psicologia, criminologia, retorica.
Un’altra cosa buona del film sono gli ultimi quindici minuti. Si scopre che la storia che abbiamo seguito per più di un’ora era un bluff, che il dj Steph non è quello che sembra, che tutto il casino fatto da Carlo era pensato per lui. Il mondo scopre in diretta che Steph è una persona orrenda, lui crolla (ma non spoileriamo oltre). Questa era una parte interessante, e infatti il cast ha un attimo di ripresa. Ma niente, dura pochissimo, il finale è talmente scarso che basta da solo a spegnere quel piccolo barlume di interesse che si era creato. Non svelo altro della trama per non essere fazioso. Lascio a voi la scelta di impegnare un’ora e mezza della vostra vita per contraddirmi. Vediamo in quanti si presentano.