Capossela è una creatura mitologica, metà lupo e metà Proust, che per anni si è aggirata nella foresta di un passato a lungo fantasticato: il tempo e il luogo in cui i suoi genitori sono cresciuti, prima che partissero per la Germania dove è nato. La sua récherche è iniziata alla fine degli anni ’90, e gli ha consentito di ricostruire un epos dei paesi fantasma dell’Alta Irpinia. Un universo che negli ultimi anni ha messo in scena in tutti i modi possibili: con il libro e il film Il Paese dei Coppoloni, in parte col festival Sponz Fest, e ora con questo doppio album che raccoglie gli echi sonori di tutto il progetto, elaborati durante un percorso di ricerca etnomusicale iniziato nel 2003. Ma la caratteristica più marcata di questo doppio album è proprio il suo sdoppiamento: in una prima parte intitolata Polvere (più incline all’ortodossia folk, con i canti della quotidianità, e le sonorità e le cadenze della tradizione campana) e un’altra parte intitolata Ombra (più orientata verso mito, sogno, magia).
Lo sforzo maggiore, sarebbe arduo negarlo, è accostarsi alla prima parte: è difficile capire cosa dobbiamo chiedere a Polvere, dopo aver apprezzato l’esperienza quasi turistica in un mondo ricostruito con tanta dedizione. Le cose cambiano, forse pure troppo, quando si entra in Ombra: una dozzina di brani dalle atmosfere e dai testi più oscuri, sicuramente più possibilisti negli arrangiamenti – ancorché evidentemente contagiati da mitologie straniere: dal lungo blues dylaniano di Scorza di mulo ai mariachi di Componidori, dai miraggi texani de La notte di San Giovanni agli echi di Léo Ferré de Il lutto della sposa, per concludersi con la lunga, morriconiana cavalcata western de Il treno.
In fin dei conti, musicalmente sono i brani che più si avvicinano al Capossela degli ultimi anni e Ombra risulta la parte più viva e densa di tutto l’affresco. Certo, è quella in cui il nostro uomo si addentra nell’oscurità. Probabilmente gli somiglia di più.