Che gli androidi sognino pecore elettriche ormai lo diamo per assodato. La seconda stagione di Westworld, però, vede e rilancia: i robot non sognano più nulla, i robot si sono svegliati. E non sono di buon umore. Il primo ciclo di puntate della serie aveva mostrato lo sfruttamento e la presa di coscienza di un manipolo di androidi nati per essere, in un futuro non troppo lontano, le attrazioni principali di un parco a tema western.
Nel suo lento dipanarsi, tra bulloni insanguinati, sparatorie e corse a cavallo, la stagione aveva visto avvicendarsi temi che non indagavano solo la natura umana, ma l’abuso, la mercificazione di persone e sentimenti, anche a livello di meta-narrativa: il sadismo creativo verso personaggi che possiedono dignità autonoma rispetto al loro autore, infatti, li porta alla ribellione, a combattere per la libertà di crearsi da soli la propria storia.
Stavolta, però, assieme alla rivolta delle macchine senzienti, ci si trova davanti anche una rivoluzione nell’approccio al racconto: archiviate le (spesso pedanti) parentesi riflessive, Westworld si concentra sulla mitologia della serie e sul conflitto umani-robot. La guerra è iniziata, le fazioni si sono formate e il mondo si allarga, sia all’esterno che all’interno del parco (perché non c’è soltanto l’ambientazione western nel luna park robotico).
Il ritmo si fa incalzante, ma a discapito di buona parte del fascino che caratterizzava i primi episodi, il labirintico loop di libertà frustrate e spinta all’autodeterminazione. Pur restando intrattenimento di qualità (grande cast, regia e scrittura), Westworld pare diventato lo stesso roboante parco giochi narrativo che aveva sapientemente decostruito.