Quando l’anno scorso, nel centro dell’estate, i Wilco rilasciarono del tutto a sorpresa e in download gratuito il loro “Star Wars”, si rese immediatamente chiaro l’ingresso della band in una nuova fase artistica. Prima delle canzoni a parlare fu proprio questa sorpresa, tanto gradita ed esaltante per i fan, quanto in grado di generare una riflessione critica in merito alla necessità, da parte del gruppo, di rifuggire le regole del gioco dell’attesa e delle aspettative degli affezionati.
Più degli alti e bassi di Star Wars però – e delle sue scelte sonore così eterogenee e divisive – a distanza di un anno, è questo Schmilco in uscita, con copertina straordinaria a magica opera di Joan Cornellà, a sottolineare la nuova declinazione della vita di questa band.
Jeff Tweedy tiene a specificare che si tratta di un album dagli spazi sonori aperti e dal mood “gioiosamente negativo”, triste in tanti modi, ma in nessun modo che arrivi a una conclusione di disperazione o catastrofe: «Mi sono solo molto divertito a essere inacidito con le cose che mi danno fastidio», ci dice.
Tutto questo si conferma immediatamente ascoltando i testi del disco, ma si può cogliere in modo ancora più immediato confrontandosi con il mood acustico dell’album. In qualche modo si ha la sensazione netta, procedendo ascolto dopo ascolto, di trovarsi di fronte alla mise en scène reale del distacco definitivo da tutte le ritualità della rock band che si apre al mondo, sempre alla conquista di nuovi ascoltatori, adepti, fan, innamorati. Non esiste captatio benevolentiae in Schmilco, così come non ne esisteva in Star Wars, e non ne esiste perché la maturità artistica definitiva è stata, più che evidentemente, raggiunta.
Ciò che appare inesaurito è il gioco delle carte sonore che la band fa, ancora adesso, arrivata al decimo album in studio, dopo anni di attenzione alle sperimentazioni alt rock, al post rock, al power pop, al raccolto del kraut, del folk e del puro pop. Un gusto impeccabile per l’armonia, per il mix dei generi in modo sempre sapiente e sempre curioso, rende i Wilco un caso intrinsecamente unico nei risultati.
Oltre le presenze vive di influssi beatlesiani e i momenti in cui fa capolino Elliott Smith, c’è in Schmilco lo stesso senso di rilassatezza artistica che percepivamo dai suoni di Star Wars, qualcosa che a qualcuno potrebbe apparire come semplice e inevitabile manierismo del tempo, una teoria che, invece, si smentisce facilmente con un’attenzione alla storia della band. Questa nuova visione dei mix sonori, delle unioni inattese tra synth, chitarre, eco psych, non è che un altro modo, non meno incisivo dei precedenti, che Tweedy & Co. hanno scelto per mostrarci cosa sono, in ottica Wilco, la massima espressione della maestria tecnica e della scrittura a un livello ineccepibile: la possibilità di sperimentare rigorosamente questi mix anche in una nuova chiave, più acustica, raccolta, ma di certo non meno potente.
Shrug and Destroy allora è un gioco rarefatto che sembra armonizzare su While My Guitar Gently Weeps, mentre il suono dei nostri torna a Chicago con il singolo If I Ever Was a Child e, naturalmente, con Normal American Kids. Cry All Day sembra riprendere alcuni stilemi già canonizzati dalla precedente produzione della band ed è una delle vette del disco, grazie a un incastro magico del suono che gioca con i crescendo con un testo tanto chiaro quanto emotivamente incisivo: “And I cry, cry all day, cry all night”, insomma, se ci sono i Wilco dietro agli strumenti, può diventare persino un ritornello potente che non se ne va più e conferma il senso di negatività gioiosa di cui si diceva all’inizio. Schmilco, quindi, ne esce come la potente declinazione tanto classica e ironica (We Aren’t the World – Safety Girl) – che fa il controcanto a We Are the World – quanto sperimentale (Common Sense) della varietà della serena tristezza, se non della vita intera almeno di quella nel 2016.