Aboubakar Soumahoro ha 38 anni. È un italiano nato in Costa d’Avorio. Ha fatto il bracciante e il muratore, quando viveva dalle parti di Napoli. Si è laureato in Sociologia, «un triennale alla Federico II», spiega, e aggiunge, «però questa della laurea non è una cosa da chiedere a Di Maio». Sorride. Ha una faccia scolpita in un’espressione severa. Una fessura allegra tra i denti.
Non ama parlare di sé. Per niente proprio. Solo dopo mezz’ora di chiacchierata cede: «Mi ricordo anni fa una delle tante lotte che portavamo avanti…». Abbassa lo sguardo e la voce: «…entriamo tutti quanti nella stanza, ci sediamo. Chiedono: “Chi è il rappresentante del sindacato?” I miei compagni guardano me. Dicono: “Lui”. Questo è». Cambia discorso. «Lo capisco, in questa società c’è la personalizzazione di tutto. Ma sai cosa diceva Thomas Sankara? Meglio fare un passo col popolo che cento da soli». Aboubakar è capace di citare i grandi maestri del pensiero post-coloniale, ma prima di tutto è un sindacalista. Fa parte del direttivo nazionale dell’Usb, l’organizzazione nata quasi dieci anni fa all’esterno dei grandi sindacati. Ha un ufficio a Roma, ma continua a girare l’Italia.
Che sia nato per fare questo lavoro lo vedi dalla dolcezza e dalla pazienza con la quale è capace di rispondere a tutti quelli che lo avvicinano, per chiedergli un aiuto o un parere. Lo vedi anche dalla forza con la quale sa tenere un microfono in mano, stare in equilibrio su un camion, scegliere le parole giuste per un comizio, guardare la gente negli occhi.
Un mese fa è stato venti minuti in televisione, a Propaganda Live su La7. A parlare del suo amico Soumaila Sako, bracciante giunto dal Mali fino in Calabria e ucciso lo scorso 2 giugno con una fucilata dentro una fabbrica abbandonata da un tizio bianco, che pensava di essere il guardiano di quel niente. Quella sera della tv, Abou si era concesso l’unica innocente debolezza di indossare un dashiki blu, la camiciola afro da attivista anni ’60. Ha bucato lo schermo. Un fiume di tweet lo ha eletto immediatamente nuovo leader della sinistra. Ci scherziamo sopra. «Ti candiderai prima o poi?». Fa finta di non aver sentito, si stropiccia gli occhi quando chiediamo di fargli delle foto: «Sono tornato da Foggia alle tre di notte per stare coi braccianti di giù, mi sa che ho gli occhi rossi».
Lo fotografiamo nella sede del sindacato, tra le sedie di plastica e i vecchi tavoli di mille riunioni, sotto la riproduzione sbiadita di un quadro del Terzo Stato. Se “sindacalista” sembra una parola moscia o non troppo elegante, non sa che farci. Lui gira l’Italia come una trottola per ricordare a gente che di notte dorme nelle baracche e di giorno raccoglie mele oppure pomodori che la schiavitù è stata abolita, il caporalato dovrebbe stare nei libri di Storia, il sistema dell’apartheid – sperimentato per la prima volta nelle colonie fasciste italiane negli anni trenta – è stato abbattuto in Sudafrica qualche decennio fa. «Domani vado a Saluzzo», ci racconta, «lì ci sono 200 braccianti che dormono praticamente per strada. Fanno la raccolta delle mele, che è gestita direttamente dalle aziende oppure dalle agenzie di collocamento. Vado, sto con loro, ascolto. Devo capire quali sono i bisogni, se c’è il rispetto degli orari di lavoro, se vengono pagate le giornate effettivamente lavorate oppure no. La cosa che chiedo sempre è indicare con una matita le giornate, le ore, anche con un segno, se non sai scrivere. Alla ne facciamo la somma e vediamo se coincide con il contratto».
Le stanghette. Come i galeotti nei film, viene da dire. «Noi diciamo uguale lavoro uguale salario», continua Abou, «perché a Saluzzo i lavoratori vengono soprattutto dall’Africa, la loro è la medesima condizione dei lavoratori italiani, ma a livello retributivo prendono meno e questo lo sanno anche al ministero del Lavoro. Perché non sono regolari».
C’è una parola che sentirete spesso uscire dalla sua bocca, una parola aspra: razzializzazione. Il nostro apartheid. La frontiera della nostra lotta per i diritti civili, come l’America degli anni ’60. «L’ultima regolarizzazione è stata fatta da Maroni nel 2012, e quando Salvini dice “è finita la pacchia”, si accorgerà, come se ne è accorto Maroni, che i suoi slogan non stanno in piedi», continua. «A quei lavoratori va data la possibilità di regolarizzarsi. Allo stesso tempo dobbiamo capire che la Bossi-Fini è una legge che crea vulnerabilità e ricattabilità, cioè che fa parte di un sistema, di un’ideologia razzista».
Sulla pagina facebook di Aboubakar c’è una grande foto di Nelson Mandela. Come vive Aboubakar lo scatenarsi del razzismo senza peli sulla lingua, tutto chiacchiere distintivo e praticità bottegaia, che infesta i social? «Messaggi e commenti ne arrivano tanti, e tanti, come sappiamo bene in questo periodo, sono messaggi di odio», risponde. «Il punto, però, non sono quelle persone, prese singolarmente, il punto è chi ha elaborato quel pensiero. Il razzismo è un’ideologia che è stata pensata e fatta calare nel tessuto sociale». Ok, e in che modo? «L’Italia non ha mai fatto i conti con la sua colonizzazione. Ora si è costruita questa dimensione del migrante: se sei un italiano povero la colpa è dei migranti. Ma torna indietro agli anni ’60 nel triangolo industriale del Nord: quei migranti erano i terroni. Thomas Sankara parlava di una doppia colonizzazione, una esterna e una interna».
Citi spesso Sankara, e anche Mandela, Aimé Césaire, i padri del pensiero afro, postcoloniale. E poi non manchi mai di ricordare Giuseppe Di Vittorio, il padre del sindacalismo italiano, che è stato un bracciante come te, come Soumaila e come tanti altri ragazzi africani oggi.
Alla fine noi diciamo una cosa semplice: prima gli sfruttati. Quindi: i braccianti, i rider, le lavoratrici domestiche, le donne che continuano a subire forme di sessismo e anche i disoccupati. E diciamo anche: prima di essere tutto questo, siamo persone. È il messaggio che noi, anche Soumaila, proviamo a portare avanti: bisogna rompere quella specie di vestito cucito addosso a ognuno, per cui il migrante e il profugo diventano una non-persona. Bisogna uscire dalla disumanizzazione, dalla razzializzazione.
E come si fa? Se ti dico Balotelli, cosa ti viene in mente?
Dico che ci sono tante persone, e dobbiamo evitare di creare dei simboli. La composizione fisica della società italiana è oggi molto più avanti rispetto alle leggi, che sono norme arcaiche, fatte da chi ritiene che oggi vedere un autista di pullman o un capitano della nazionale con la pelle scura sia qualcosa di straordinario. A tutti capita di mangiare kebab, cous cous o sushi, però, se parli di diritti sociali, allora si tira il freno a mano. È chiaro che non dobbiamo guardare il dito: io difendo i lavoratori non in quanto migranti, ma in quanto braccianti e lavoratori tout court. Non per il loro colore di pelle, ma perché sono sfruttati.
Insisto: com’è sedersi al tavolo di una trattativa sindacale oggi in Italia e avere la pelle nera come la tua?
Pas de complexe, nessun complesso. È la consapevolezza di cui parlava Cheikh Anta Diop, se non hai quella ti divorano. Il padrone avrà i suoi pregiudizi, ma può darsi che mangi kebab e cous cous anche lui. Io ho la mia consapevolezza.
Diop è lo storico senegalese che negli anni ’50 dimostrò che gli antichi egizi che si studiano a scuola erano neri e africani….
Ripeto. In Italia non abbiamo fatto il conto con quella che è stata la colonizzazione. Mai. Non è stata una gita, né una crociera. Era un’ideologia: la superiorità della razza. Quindi attenti alle parole: se io dico sindacalista nero vuol dire: sarà pure attivista sindacale, ma sempre nero è.
Bisogna chiamare le cose col loro nome: sfruttamento, schiavitù
Volevamo farci raccontare da Aboubakar la sua “storia”, come si dice in gergo giornalistico. Alla fine ci siamo trovati di fronte a un’altra storia. «Tutto questo avviene a seguito dell’uccisione di Soumaila, che era una bracciante, un delegato nostro, un contadino», è la prima cosa che ci ha detto quando gli abbiamo chiesto un giudizio su quello che stava capitando a lui in questi giorni: la tv, le interviste, la copertina dell’Espresso accanto a Salvini, e pure queste foto per Rolling Stone.
La storia di Soumalia ce la racconterà Abou dall’alto di un camion a Reggio Calabria, alla fine della manifestazione convocata per chiedere giustizia e verità su questo assassinio. Un sabato di fine giugno, abbiamo preso un treno e ci siamo andati. Quello di Abou è più che un racconto, è una sacra rappresentazione. Poco più che ragazzo – partito da Yélimané nella regione di Kayes, Mali – Soumaila, figlio di contadini e con un padre sindacalista, scappa, perché la siccità non consente più di lavorare la terra. Ha una moglie e una figlia appena nata. Viene in Europa. Ha un fratello in Francia che lavora in fabbrica e gli chiede di raggiungerlo, ma Soumaila vuole continuare a fare il contadino. Chi dovrebbe fermare Soumaila? E perché? Di chi è la terra che abitiamo? Si ferma in Calabria e va a vivere nelle baracche del ghetto di San Ferdinando, tra i più grandi di Italia, in una zona industriale nella Piana di Gioia Tauro. Entra nel sindacato. Viene ucciso con un colpo di fucile il giorno che con altri amici entra in una fabbrica abbandonata, a recuperare del materiale per rifare il tetto della sua baracca.
You gotta go down and join the union
You gotta join it for youself
Ain’t nobody here can join it for you.
(Woody Guthrie)
Nelle strade di Reggio Calabria – di certo con parecchie difficoltà – sono arrivati per la manifestazione dei gruppetti di ragazzi africani che vivono proprio nei ghetti di San Ferdinando e di Rosarno. Ce n’è anche da Foggia e da Napoli. Qualcuno di loro fa attività sindacale. Sambaré, bracciante a Foggia che viene dal Burkina Faso e ha addosso una maglietta blu con sopra scritto “Badminton Pomezia”, parla a lungo di Soumaila. Ripete più volte una parola: fucilazione. C’è stato un fermo per l’assassinio, l’uomo di 40 anni che avrebbe sparato il colpo è in carcere in attesa della conclusione delle indagini, ma il tempo passa e la rabbia di Sambaré tradisce la paura che giustizia non sarà fatta nel Paese dei “signor Salvino”, come lo chiama lui.
Durante il corteo incontreremo anche Fofanà («Di dove sei?», «Di Napoli»), alto e grosso con una maglietta gialla e rossa, che non dirà quasi nulla, ma in equilibrio sul camion ballerà a lungo Exodus stringendo al petto la fotografia di Soumaila, stilizzata proprio come certi ritratti di un giovane Bob Marley.
Open your heart, uh!
And look within
Are you satisfied, with the life you’re living?
We’re leaving Babylon.
We’re going to the Father’s land
(Bob Marley)
Se tutto è andato bene, pochi giorni dopo la manifestazione Aboubakar e qualche altro amico saranno riusciti a riportare a casa il corpo di Soumaila Sacko, alla sua famiglia. Una promessa mantenuta. «Abbiamo lanciato una raccolta fondi per rimandare la salma in Mali», spiega Abou, «chi ci ha dato un euro, chi molti di più. Questa dimostrazione di solidarietà ci dice che l’Italia non può fare la guerra alla propria memoria, che è una memoria di fatica e di emigrazione».
C’è qualcosa di dolorosamente sacro, epico, in questo esercizio della pietà che è la sepoltura del corpo di un fratello, che parte da una baraccopoli e torna in Africa, attraversando lo spazio che era la Magna Grecia. C’è qualcosa di paradossale e crudele in questa specie di esodo – Exodus –, il ritorno a casa in una bara, nei giorni del “rispediamoli a casa loro”, del “chiudiamo i porti”, giorni tra i più neri che si siano visti a Babilonia. Abou: «Soumaila lo diceva sempre in assemblea: “Ragazzi, siamo entrati in questa situazione a livello individuale, ma ne usciremo solo collettivamente”. E bisogna chiamare le cose col loro nome: “sfruttamento, schiavitù”. Ora i riflettori sono accesi».
Lo slogan dice: Toc-ca-u-no, toc-ca-tut-ti.
Schiavi mai.
Schiavi. Mai.