Pensando a questa intervista con Barack Obama, mi sarebbe piaciuto domandargli dei risultati ottenuti nei suoi otto anni da Presidente, affrontare i temi più cari a lui e ai lettori di Rolling Stone o ascoltare i suoi consigli per Hillary Clinton. Sarebbe stata una exit interview, la sua decima copertina di Rolling Stone USA e la nostra quarta chiacchierata insieme.
L’ultima volta che l’avevo intervistato, nel 2012, l’atmosfera era molto rilassata. Avevamo sforato di mezz’ora sui tempi stabiliti e, uscendo dalla Sala Ovale, mi ero imbattuto in Hillary Clinton, al tempo Segretario di Stato. Era seduta alla scrivania dell’assistente del Presidente e aspettava di incontrarlo. Nel corso degli anni Rolling Stone ha avuto un rapporto splendido con Barack Obama. L’ho incontrato la prima volta nel 2008, durante la sua campagna elettorale e abbiamo cenato insieme nel mio ufficio. L’abbiamo supportato nei momenti facili e in quelli difficili. Obama considera i lettori di Rolling Stone come parte del suo popolo. L’abbiamo accompagnato in Alaska e guardato con orgoglio mentre lasciava un segno che rimarrà sulle pagine dei libri di Storia.
Il tempo che poteva concedermi non sarebbe mai stato sufficiente per rispondere a tutte le domande che avevo da fargli. Perché nessuno dei responsabili delle frodi di Wall Street – gente che ha fatto perdere casa, lavoro e risparmi a milioni di persone – è finito in carcere? Perché quelli che hanno trascinato l’America nella guerra in Iraq l’hanno passata liscia? L’ascesa di Donald Trump sarebbe stata davvero possibile, se questi problemi fossero stati affrontati diversamente? Come si sentiva dopo essere riuscito a difendere milioni di chilometri di territorio nazionale? E come mai la questione del cambiamento climatico è diventata la priorità della sua agenda? Ahimè.
Obama è venuto a salutarmi all’ingresso del suo ufficio, poi mi ha accompagnato all’interno. Sembrava molto stanco. Si è tolto la giacca e, una volta seduto in poltrona, ha detto: «Dai, facciamola». Ha parlato lentamente e con precisione, senza mai tradire la sua natura: controllato, razionale e cool. Ci sono molte cose che un ex Presidente non può dire: questo è quello che mi ha detto.
Pensa ancora che l’America sia un Paese progressista?
Penso che niente sia scolpito nella pietra. Le persone che pensano in modo inclusivo, onesto e credono nell’uguaglianza sono la maggioranza e continueranno ad aumentare. La sfida che abbiamo di fronte – ed è una cosa su cui ragiono da tempo – è legata a tutti quei lavoratori bianchi che avevano votato per me e che in quest’ultima elezione si sono tutti rivolti a Trump. Credo che questo dipenda in parte dalla nostra incapacità di raggiungerli, un vero fallimento.
Magari un po’ dipende anche da Fox News, trasmessa in gran parte dei bar e dei ristoranti del Paese, ma sicuramente dipende dai Democratici: abbiamo abbandonato il lavoro sul territorio, abbiamo smesso di essere presenti e di offrire risposte concrete. Abbiamo impiegato molte energie in politica estera e per le grandi riforme nazionali, ma abbiamo passato meno tempo con la gente. Quando teniamo i piedi saldi a terra, invece, vinciamo. Almeno, è così che io vinsi in Iowa.
Come hanno fatto i Democratici a perdere tanti voti tra i lavoratori bianchi, persone in chiara difficoltà economica? Anche negli Stati più industriali molta gente ha perso il lavoro…
Non è così semplice, non è una questione solamente economica, ma culturale. E di comunicazione. È vero che molti lavoratori dell’industria manifatturiera hanno perso il posto: il loro lavoro oggi lo fanno le macchine. Durante il mio mandato, però, i numeri dei lavoratori nel manifatturiero sono aumentati enormemente. Pensaci, in Michigan…
Quello che volevo dire…
Aspetta, fammi finire. Se guardi al Michigan, uno Stato dove ho vinto con ampi margini sia nel 2008 che nel 2012… Lì siamo riusciti a dedicarci molto ai lavoratori: alcune fabbriche di automobili sono aperte e non più chiuse. Se guardi alle riforme sul reddito minimo garantito, agli investimenti per le famiglie, sia di bianchi sia di neri e ispanici, non abbiamo abbandonato queste comunità. Penso che questa sia un’interpretazione errata.
Mi è capitato spesso di leggere: “Oh, le famiglie di lavoratori sono state abbandonate”, o “Le famiglie di lavoratori bianchi sono state ignorate dai Democratici”. In verità, è successo il contrario. Quello che è vero, però, è che le nostre proposte non li hanno raggiunti e non sono state ascoltate. L’unico messaggio che è passato è che Obama e Hillary non li rispettano e vogliono togliere loro le armi.
Penso che sia davvero importante che noi, i progressisti – non solo il Partito Democratico, ma tutti quelli che vogliono un’America più progressista –, cominciamo a interrogarci sul modo in cui lavoriamo sul territorio. Dobbiamo tornare tra la gente, combattere per difenderla e per offrire una visione concreta di come le nostre idee miglioreranno la vita degli americani.
Quello che facciamo, invece, è portare avanti politiche tecnocratiche comprensibili solo dalla redazione del New York Times. Se non siamo sul territorio e la gente non ci guarda in faccia, continueremo a perdere, anche se credo che il programma dei Repubblicani non riuscirà ad aiutare davvero la gente.
Quale pensa sia il futuro del Partito Democratico? Prima delle presidenziali, tutti pensavano che i Repubblicani fossero allo sfascio; ora tre rami del governo sono nelle mani di quel partito. Siamo di fronte a una vera svolta a destra.
Beh, non credo sia una vera e propria svolta a destra. Basta guardare a…
Se controlli tre rami del governo e la Corte Suprema…
La maggioranza degli americani, inclusi gli elettori di Trump, sono favorevoli al reddito minimo garantito. Sono favorevoli alla depenalizzazione della marijuana. La maggioranza, almeno credo, accetta la necessità di trattare la comunità LGBT con maggiore rispetto. Sono diffidenti verso Wall Street e verso l’establishment.
Parte di quello che ha fatto Trump, e lo stesso Bernie Sanders, è stato proprio porsi come alternativa alle “vecchie istituzioni”. È ironico, se ci pensi: Trump è da sempre parte dell’establishment, a differenza di Bernie che è un vero outsider. Per questo non credo che il Paese sia improvvisamente diventato di destra.
Quello che è vero, invece, è che i Repubblicani sono riusciti a vincere gli Stati, il Congresso e anche il Senato. Questo è il problema che devono affrontare i Democratici. Ma, con tutto il rispetto per il Presidente, i Democratici sono e saranno in una posizione migliore rispetto ai Repubblicani. Quello che ci aspetta è un lavoro difficile: la gente si stanca facilmente di un partito che ha governato per otto anni di fila.
I Democratici devono ripensare il modo in cui approcciano i problemi? I progressisti devono fare lo stesso? Assolutamente sì. Quando ho parlato con Bernie Sanders proprio in questo ufficio, entrambi concordavamo sulla necessità di rinvigorire il partito, di non farlo più sembrare come un’entità di Washington, ma come un’organizzazione legata al territorio, diffusa in tutto il Paese e unita alla gente comune.
Come intende affrontare questo problema?
Sfrutterò il mio primo anno lontano dalla presidenza per scrivere un libro e per organizzare il mio “centro presidenziale”, dove vorrei formare la prossima generazione di leader. Ripenseremo il nostro storytelling, i messaggi che invieremo, il nostro utilizzo della tecnologia e dei digital media, così da tornare a convincere il Paese.
Non solo a San Francisco o a Manhattan, ma ovunque, dobbiamo spiegare l’importanza del cambiamento climatico in corso e della diseguaglianza economica. Continuerò a essere molto attivo, così come lo sarà Michelle.
Vorrei chiederle della questione del cambiamento climatico. Trump ha promesso di ritirarsi dagli Accordi di Parigi. È davvero possibile?
Beh, storicamente gli accordi internazionali vengono mantenuti dalla nuova amministrazione. Ci sono accordi fatti dal Presidente Bush che ho rispettato, perché il Presidente degli Stati Uniti deve dare un senso di continuità. Allo stesso tempo, però, il Partito Repubblicano ha una posizione molto estrema sulla questione del clima.
I Democratici devono ripensare il modo in cui approcciano i problemi? I progressisti devono fare lo stesso? Assolutamente sì
Alcuni dei progressi che abbiamo fatto rischiano di essere cancellati. La buona notizia è che molte delle nostre iniziative hanno funzionato, non solo in termini di riduzione delle emissioni, ma anche dal punto di vista economico. Durante gli otto anni della mia amministrazione abbiamo raddoppiato la produzione di energia pulita e tagliato del 50% le emissioni delle auto.
Questi risultati non si possono cancellare eliminando le leggi: hanno a che fare con investitori, aziende e consumatori che si sono organizzati insieme, che hanno capito che l’energia pulita è buona sia per il pianeta sia per il loro portafoglio.
La domanda da fare a Donald Trump e ai Repubblicani, secondo me, è questa: vogliono cancellare le centinaia di migliaia di posti di lavoro creati nell’industria dell’energia solare? Vogliono che le Big Three dell’industria automobilistica riprendano a produrre macchine inquinanti, anche se i consumatori sono felici di risparmiare sulla benzina?
Per quanto riguarda le centrali energetiche, al contrario di quanto si dice, non è stata la mia amministrazione a colpire il carbone. È stato il gas naturale, più di ogni altra cosa, a sorpassarlo perché economicamente conveniente.
Tutta la comunità scientifica dice che sul clima siamo oltre il punto di non ritorno. Adesso i fratelli Koch (arcimiliardari dell’energia, destri e ultraliberisti: le loro aziende sono state più volte condannate per inquinamento, ndr) finanziano un Congresso totalmente ostruzionista in materia. Questo è un fatto. Le loro idee sul tema sono chiare a tutti, come gli investimenti che hanno portato i voti che hanno eletto questo Congresso…
Sì, ascolta. Se vuoi convincermi che ogni cosa sarà terribile… possiamo parlarne a lungo. Oppure possiamo agire. Le cose stanno come stanno. Ci sono state le elezioni. C’è una presidenza Trump e i Repubblicani controllano il Congresso. La domanda per quelli come noi deve essere: come facciamo a dare il nostro contributo da oggi fino alle prossime elezioni?
Riusciremo a mobilitarci e a mobilitare le persone, a riportarle su una strada che possa aiutare le famiglie, aiutare l’ambiente, la nostra sicurezza, lo stato di diritto e i diritti civili? Come ho detto ai miei collaboratori più giovani, ragazzi che hanno conosciuto la politica solo grazie alla mia presidenza, la Storia non viaggia sempre in linea retta.
Si muove in maniera obliqua, fa due passi avanti e uno indietro. Hai ragione quando parli dell’urgenza della questione climatica, ma per affrontare davvero questo problema dobbiamo coinvolgere il popolo americano e l’opinione pubblica. Sono loro che devono percepire questa urgenza, e sta a noi far sì che succeda, sta a noi conquistare i voti necessari per fare le politiche necessarie.
Abbiamo fatto grandi progressi rispetto a otto anni fa, ma non siamo affatto vicini a dove dovremmo essere. Gli Accordi di Parigi ci mettono di fronte traguardi da raggiungere in un decennio. Sono sicuro che l’America possa riuscirci. Certo, alcune politiche dell’amministrazione Trump potrebbero creare problemi, ma sono sicuro che possiamo comunque raggiungere gli obiettivi prefissati. Non c’è nessun beneficio nel chiudersi a riccio. Dobbiamo stare tra la gente, rimboccarci le maniche. E con il tempo le cose miglioreranno.
Vorrei chiederle qualcosa sull’immigrazione. Qual è la direzione da intraprendere? Cosa ci aspetta?
Beh, ci sono molti nel Partito Repubblicano che riconoscono che, a prescindere dal risultato di queste elezioni, alienarsi gli elettori latini e quelli asiatici potrebbe diventare un serio problema. Gli stessi Repubblicani hanno buone ragioni per evitare che questo accada. Sarà importante per tutti, Democratici e attivisti per i diritti dei migranti per primi, capire che, per la maggioranza degli americani, la parola “confini” significa tanto.
E ci devono essere, come ho detto spesso, sia leggi sia valori che rispettino la nostra storia di Paese di immigrati. Queste due cose non sono in contraddizione, ed è vero che a volte la nostra apertura verso gli altri non è stata bilanciata sia dal punto di vista legislativo sia da quello organizzativo. Tendiamo a considerare poco le preoccupazioni di chi vuole un’immigrazione legale e ordinata.
Questo significa, secondo me, che ci sarà comunque l’opportunità per fare una seria riforma dell’immigrazione. Non penso che quest’occasione si presenterà nei prossimi due anni, forse nemmeno nei prossimi quattro, ma possiamo proporre cambiamenti intelligenti, costruire su quello che abbiamo già fatto.
Possiamo collaborare con il Messico per far sì che i migranti centroamericani siano trattati umanamente. Continuare a fare investimenti intelligenti in Paesi come Honduras, El Salvador e Guatemala, in maniera tale da aiutarli a migliorare le condizioni di vita della loro popolazione.
La prima cosa da fare, ed è la mia priorità, è creare una base di fatti condivisi. So che suona come una cosa molto astratta, quindi provo a dirlo in un altro modo: dobbiamo creare una storia comune che racconti chi siamo
Oggi è possibile acquistare legalmente marijuana in tutta la West Coast. Perché, allora, continuiamo a parlare di Guerra alla Droga, anche se è stata un fallimento colossale? Perché c’è ancora chi parla di assimilare dal punto di vista legale la marijuana all’eroina?
Io sono sempre stato molto chiaro: dobbiamo scoraggiare l’abuso di sostanze stupefacenti. E non penso che legalizzare sia la cura per tutti i mali. Allo stesso tempo, però, penso che questo sia un tema di sanità pubblica: il modo più intelligente per affrontare il problema è fare come abbiamo fatto con le sigarette e con gli alcolici. La classificazione delle sostanze non dipende dal Presidente, ma dal legislatore, e dalla DEA. Come puoi immaginare, la DEA – che storicamente si occupa proprio di far rispettare le leggi antidroga – non esprime posizioni particolarmente “progressiste” in materia. (Ride)
E lei sarà “particolarmente progressista”?
Guarda, da privato cittadino avrò la possibilità di indicare quella che, secondo me, è la direzione da intraprendere. Non è sostenibile sul lungo periodo una situazione in cui la DEA deve far rispettare un mosaico di leggi diverse. In uno Stato qualcosa è legale, in un altro rischi 20 anni di prigione. Questo è un dibattito ancora in corso, e penso che succederà quello che è successo per i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Questi situazioni sono laboratori di democrazia, hanno un approccio evoluzionistico.
Quindi siamo ancora in fase preparatoria?
Una delle cose più importanti che possono fare i progressisti è capire che non si può avere tutto e subito. Non possiamo dire: “Perché non parliamo con gli elettori che ci hanno abbandonato?”. E, allo stesso tempo dire: “Perché non avete realizzato in tutto il Paese quelle cose che noi, che siamo già progressisti e abitiamo nella West Coast, pensiamo vadano fatte subito?”. Il punto è che la politica, in un Paese grande e tanto diverso come questo, deve muoversi con cautela, ma sistematicamente, non dobbiamo fare il passo più lungo della gamba.
Come faremo, quindi, a riunire il Paese?
La prima cosa da fare, ed è la mia priorità, è creare una base di fatti condivisi. So che suona come una cosa molto astratta, quindi provo a dirlo in un altro modo: dobbiamo creare una storia comune che racconti chi siamo. La sfida più grande che ci consegna
questa divisione è quella dell’informazione. E la situazione peggiora giorno dopo giorno. C’è un movimento che allontana la gente dal giornalismo per portarla su Facebook – dove l’articolo di un Premio Nobel ha la stessa rilevanza di uno scritto da un tizio in mutande chiuso nella sua cameretta, o di un pezzo firmato dai fratelli Koch.
Le persone non si parlano più, occupano semplicemente diverse sfere. Nell’era di Internet, dove la stampa libera e senza censura ha ancora un valore, questo è un problema difficile da risolvere. Penso che i media debbano interrogarsi seriamente sulle proprie responsabilità, su come migliorare il discorso pubblico. E questo rende necessaria una migliore educazione civica per i nostri ragazzi, dobbiamo spiegare loro come si fa a capire cosa è vero e cosa è falso.
Michelle non si candiderà mai. Io e lei ci scherziamo su, e le dico sempre che è troppo sensibile per fare politica
Forse l’industria dell’informazione, che sta crollando sotto i colpi di Facebook, ha bisogno di un sussidio statale?
Il problema è diverso, non si tratta solo di un settore economico che perde denaro. Il New York Times continua a fare utili. NPR se la cava bene. Il problema è la segmentazione. Noi abbiamo di fronte un Paese spezzato in due. Il buon giornalismo continua e continuerà a esistere, anche voi di Rolling Stone fate un grande lavoro. Il problema è che la gente riceve centinaia di diverse visioni del mondo da centinaia di fonti diverse. Questo ha acuito le divisioni, ha reso il discorso pubblico esagerato, pieno di insulti e bugie. Se vogliamo risolvere il problema, non possiamo limitarci a dare sussidi ai media tradizionali; dobbiamo capire come organizzare il mondo virtuale in maniera simile a quanto succede nel mondo fisico. Dobbiamo trovare modelli nuovi.
Qual è un momento personale che ritiene descriva al meglio i suoi ultimi otto anni?
Beh, molti di questi momenti sono noti a tutti: ricordo la sera in cui abbiamo preso Bin Laden, passeggiavo nel colonnato della Casa Bianca ascoltando il coro “U-S-A! U-SA!” . Ci sono tanti momenti speciali: quando ho letto i messaggi di chi aveva una storia da raccontare, veterani che non ricevevano le giuste cure.
La cosa che mi mancherà di più, la cosa che mi rende davvero sentimentale – e cerco davvero di non essere troppo nostalgico – è la squadra che ho costruito lavorando alla Casa Bianca. I giovani che hanno lavorato con me sono eccezionali. Gente come Brian Deese. Nessuno conosce Brian: è stato Deputy Chief of Staff per le riforme. Ha organizzato gli Accordi di Parigi, gli Accordi sugli Idrofluorocarburi, gli Accordi sull’Aviazione. Ha 35 o 37 anni, due figli, e ha fatto cose che potrebbero salvare questo pianeta. C’erano tantissime persone come lui nella mia amministrazione. Questo è quello che mi porterò dietro di questa esperienza: la loro determinazione e passione verso i temi che ci stanno a cuore mi commuove davvero.
Pensa che Michelle debba candidarsi?
Michelle non si candiderà mai. È la persona più talentuosa che conosco, ed è facile notare l’empatia che si è sviluppata tra lei e il popolo americano. Io e lei ci scherziamo su, e le dico sempre che è troppo sensibile per fare politica.
Che consiglio darebbe a Donald Trump?
A prescindere da come è andata la campagna elettorale, una volta diventato Presidente sei parte di una Storia che inizia dai primi Rivoluzionari. Questo incredibile esperimento di democrazia deve continuare. Quindi, a prescindere da qualsiasi questione politica, chi entra in quelle stanze deve capire che non è una cosa personale, it’s not about you.
Non è una questione di potere, di prestigio o di vantaggio. Questo lavoro è una cosa preziosa che ereditiamo l’uno dall’altro e che dobbiamo mantenere viva. Per me questo significa circondarsi di brava gente, gente da cui imparare e con cui capire l’importanza di questioni che cambiano la vita delle persone. Non stiamo giocando a nessun gioco. Bisogna cercare di prendere le migliori decisioni possibili per il popolo americano – anche quando sono impopolari. La soddisfazione che si prova quando ti rendi conto di aver rispettato questo concetto è immensa.
Pensa che il peso della Storia possa in qualche modo contenerlo?
Penso che sedersi dietro quella scrivania sia qualcosa che ti rende umile. Sono sicuro che avrà un impatto su di lui, come l’ha avuto su tutti gli altri Presidenti. Ma chi davvero può contenerlo è solo il popolo americano: un popolo informato, attivo e appassionato. È questo che cercherò di fare, a modo mio, per il resto della mia vita.