Un giorno ripenseremo allo Scandalo Harvey Weinstein come al momento in cui ci si è ribellati al patriarcato, almeno per un po’. È stata la massa critica a far succedere tutto: una specie di valanga, un lento (ma scioccante) risveglio da un lungo, lunghissimo incubo a occhi aperti.
Quella di Weinstein è, ovviamente, una storia dalle radici profonde. Le rivelazioni sugli abusi di uomini di potere su donne indifese esistono da… beh, da sempre. Ma in America la questione si è fatta più seria durante l’ultima campagna elettorale, dopo la diffusione del famoso video di Trump ad Access Hollywood – «grab ‘em by the pussy» -, della dick-pic apocalypse di Anthony Weiner e delle rivelazioni su Bill Cosby, che da icona della comicità familiare si è rivelato essere uno stupratore seriale. La rabbia si è accumulata come una valanga. E in molti si sono svegliati urlando.
In qualche modo, però, lo scandalo di Weinstein ci è sembrato subito il peggiore. Forse per la gravità delle conseguenze, forse perché da Trump non ci aspettavamo niente di diverso, forse perché Cosby era vecchio e dimenticato da tutti. Weinstein era ancora rilevante, potente, attuale. Rappresentava cose belle: l’arte; gli Oscar; i sogni di Cenerentola che si fanno realtà. Certo, anche Cosby e Trump potevano far decollare una carriera, ma non erano i gatekeepers di nessuna industria. Non erano il sistema in carne e fottute ossa. Harvey Weinstein aveva i tuoi sogni in mano: lavorare con lui significava avercela fatta. Poteva farti diventare una star o distruggere la tua carriera; o anche le due cose insieme. Il sesso era il prezzo da pagare, il pizzo a stelle e strisce.
E questo non è un problema individuale. È un problema sistemico. Non ci sono due parti in questa vicenda e nemmeno “Responsabilità Personale”. Il suo comportamento è emblematico di come funzionano i sistemi di potere: non è Weinstein, o Hollywood. È l’America. È l’occidente. È il fiume di hashatg #MeToo che ha inondato Facebook e Twitter. È il patriarcato. È un sistema di oppressione in azione dove a volte si perde, altre si perde di nuovo.
C’è qualcuno che sostiene che tutto quello di cui si sta parlando è naturale, che questa storia archetipica – il vecchio ricco e potente contro la giovane donna – fa parte del nostro pool genetico, uno dei tanti modi con cui la natura garantisce la sopravvivenza della specie. Sono tutte stronzate di massimo livello. E cominceremo a crederci solo quando vedremo Woody Allen uccidere un bisonte a mani nude.
Usare il potere per il sesso è un abuso, non c’entra niente con la natura. Anzi, è un abuso culturale che nasce dalla convinzione di averne diritto; dall’idea che i ricchi uomini bianchi possano controllare la libertà di parola, le risorse economiche, la legge, tutto. Che abbiano il diritto di decidere chi comanda, chi lavora e chi parla.
Per Weinstein il sesso era il prezzo da pagare, il suo personale pizzo a stelle e strisce
È la cultura dell’omertà che ha nascosto lo scandalo per tutti questi anni. Weinstein controllava la storia a tutti i livelli. E se lui era l’incarnazione del sistema, i film che ha prodotto sono la narrativa ufficiale. Per noi altri, in fondo, rappresentano “la vita”. Controllando la produzione di storie questi uomini decidono le “favole universali”: decidono quello che si può dire e chi invece va zittito, ripudiato e sconfessato.
Questa cultura fa somigliare la realtà a una bugia. Costringe la realtà a conformarsi alle loro storie. Svaluta l’esperienza di chiunque viva in un mondo diverso dal loro. Scarica la vergogna sulle vittime, le rende complici di mantenere lo stesso segreto.
È per questo che tutta questa vicenda è importante: perché questa narrazione – la stessa che permette al sistema di sopravvivere – si sta riempiendo di crepe. Negli anni ’60 il semiologo francese Roland Barthes scrisse il saggio “I Miti d’oggi”, dove spiegava come la cultura popolare generasse miti, e come la mitologia ha sempre funzionato: la sua funzione era trasformare la cultura in natura.
Lo scandalo di Harvey Weinstein mostra che la cultura è spezzata, e che è l’ora di pensare a nuovi miti. È tempo di nuove storie che non siano al servizio del potere, che possano gettare luce su quello che ci succede davvero.