Lo sport americano si inginocchia davanti al razzismo di Trump | Rolling Stone Italia
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Lo sport americano si inginocchia davanti al razzismo di Trump

Steph Curry, LeBron James, Kobe Bryant e i campioni della NFL si sono apertamente schierati contro il ‘white suprematism’ del Presidente, che da parte sua risponde: «Licenziate quei figli di puttana»

Lo sport americano si inginocchia davanti al razzismo di Trump

Eric Reid e Colin Kaepernick in ginocchio durante l'inno americano

Siamo sicuri che più o meno tutti i nostri lettori si siano fatti un’idea su chi e cosa abbia rappresentato Donald Trump in questo suo primo anno da uomo “politico”, negli ultimi giorni sono arrivate anche le polemiche con il mondo dello sport americano e, intanto, la guerra in Corea si sta avvicinando, l’uragano Maria ha devastato Porto Rico lasciando oltre 4 milioni di cittadini con passaporto americano senza elettricità e aiuti, un terremoto nel vicino Messico ha fatto danni enormi…. Sono solo gli eventi principali degli ultimi sette giorni a cui – eccetto un avvincente scontro tra titani con Kim Jong-un – il presidente Trump non è sembrato molto interessato. Invece “Potus” ha trovato il modo di creare un pandemonio ingaggiando un duro e appassionato scontro contro due dei più importanti campionati sportivi mondiali, quello di footbal (NFL) e basket (NBA).



Uno scontro che colpisce sport che appassionano le masse e ha un assoluto valore politico. Si tratta di una presa di posizione – quella di Trump – sul tema della razza, un approccio che sembra proprio quello di ricco bianco che non riesce a capacitarsi di come lo schiavo si sia liberato e non solo non è diventato uno zio Tom ma udite udite: siede al tavolo dei potenti perché egli stesso è un uomo ricco, famoso e con del potere. Ritirare l’invito alla Casa Bianca a Steph Curry, il campione NBA che dice di non amare il Presidente o l’urlo “licenziate quei figli di puttana” ai giocatori che compiono un gesto simbolico come protestare inginocchiandosi durante l’inno nazionale, diventano atti politici da parte del Presidente. Un’attitudine che conferma come Trump abbia affinità con i neonazisti di Charlottesville, confermando come Trump non metta in dubbio l’operato delle polizie nei territori, codificando attraverso un linguaggio odioso il suo razzismo e tutta l’ossessione dell’uomo bianco che (prova) a difendere una presunta superiorità tracciando linee del colore e preparandosi ad alzare muri. Razzismo e discriminazione della società e della polizia, questi sono temi centrali oggi negli States, temi di cui parla la protesta “contro l’inno” dei giocatori di football, temi pubblici portati avanti dalla progressista NBA e dai suoi volti più noti come LeBron James, Greg Popovich, Kobe Bryant e Kevin Durant.



La presa di posizione di Curry è legittima quanto è legittima la protesta dell’inno e quello che dice Trump “sarebbe bello che i giocatori che non rispettano la nostra bandiera venissero licenziati dalle squadre” è la conseguente risposta inammissibile riguardo un gesto di protesta che colpisce nel vivo, rimarcando le mancanze di uno Stato le cui istituzioni discriminano, incarcerano e uccidono le minoranze. Chiedere il licenziamento di chi compie gesti simbolici è un atto intollerabile. Gesti simbolici che non sono altro che atti di visibilità all’interno di un movimento di protesta contro la violenza poliziesca che è iniziata tre anni fa nelle strade di Fergusson e che si allargata a decine di città americane con Black Lives Matters. La polemica “sull’inno” inizia nel 2016 quando Colin Kaeperncik – quotato quaterback di San Francisco – per primo si è inginocchiato durante l’inno nazionale, un momento storico e iconico che verrà ricordato per decenni.

Da quelle parti l’inno è un momento solenne e formalmente istituzionale e interromperlo inginocchiandosi è un gesto sensazionale. Atto solidale sul tema centrale delle proteste degli afro-americani, la violenza della polizia e le discriminazioni, un gesto di visibilità che era il primo e unico obiettivo di Kaepernick che mai si sarebbe aspettato di diventare iconico, voleva solo lanciare un messaggio da persona “fortunata” e riconoscibile, un gesto che ha avuto tanti emulatori mentre Kap è diventato il capro espiatorio e primo responsabile, tanto da rimanere senza contratto e nessun team NFL è pronto a mettersi in casa un giocatore così scomodo. La protesta di Kap e gli eventi degli ultimi giorni infatti hanno messo in chiaro l’ipocrisia del sistema di potere NFL, i cui proprietari o general manager faticano, anzi non possono, prendere posizione riguardo le patetiche dichiarazioni di Trump, perché loro stessi mal digeriscono – nei corridoi dirigenziali la parola più usata è “traditore” – le azioni di Kap senza sollevare ne in passato ne oggi una discussione sulle cause della protesta “dell’inno”, che come sappiamo è dilagata: nell’ultimo fine settimana Il “take a knee” durante l’inno si è visto in diversi sport, sia sui campi di provincia che nelle grandi arene, e sono stati più di 200 i giocatori NFL che hanno fatto una qualche forma di protesta con un gesto – molti inginocchiati o seduti in panchina – in risposta a commenti e tweet di Trump.

Insomma anche questa triste polemica è l’ennesima crepa in una società americana che sta facendo i conti con il nuovo corso della Casa Bianca e con la conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che la questione principale da quelle parti è – come ovunque in questo mondo impazzito – la tenuta dei diritti civili, delle minoranze, delle diversità e di un orizzonte democratico nelle istituzioni e nella società. A conti fatti, non possiamo che concordare pienamente con le parole di Kobe Bryant: “Un presidente il cui nome evoca rabbia e divisione, le cui parole ispirano dissenso e odio, non renderà l’America Great Again”.

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