La più azzardata operazione urbanistica mai pensata da essere umano si è realizzata in tre mesi di maggio di decadi distanti ma giorni vicini, dal giorno 3 al giorno 15, tirati lungo 61 anni di assoluta irrilevanza storica. Ecco il 3 maggio 1844 – primo sasso spostato con destrezza – e poi 15 maggio 1905, data che vi suggeriamo come risposta vincente nel caso viviate esistenze così mirabolanti da contenere colpi di scena tipo «Quando è stata fondata Las Vegas?». Mentre riconsiderate un po’ di robe c’è da dire immediatamente che né quello – il seminale ’44 – né l’altro – lo ’05 del centinaio successivo – sono mai stati estratti sulla ruota dell’utilità prima di oggi, e lo capiamo bene, quando per ordine superiore si è deciso di porsi una domanda che doveva dare esito positivo e così è stato, ma ci toccavano i passaggi.
Ora, questa divagazione a che cosa serve? Serve a dire due cose: la prima è che a Milano, proprio in quegli stessi giorni di maggio e un mucchio di giri dopo è comparsa una specie di Las Vegas. La seconda è che non è opera indigena, che solo lounge e bar, pizza e piadine, panzerotti e tramezzini. Zero rischio mi ci ficco. Dai portoni del centro solo over 70, ma il viavai dei trolley rimane solvente. Le rotelle ora sono silenziose, questo sì, per una minor colpa. Completa il quadro la lavagna dei prezzi da Zimbabwe di Mugabe, gli studenti tutti in tenda ma poi la smettono con il caldo, addirittura Lodi si fa avanti – la città mica il Corso – offrendo case a prezzi calmierati forse sull’albero.
È naturale che in questo uno per uno, la carta del liberi tutti la debba giocare chi della città misura il polso. E quindi la Las Vegas di Milano si chiama Moysa e riuscirà nel suo intento semplicemente perché il coraggio vince in tutti i campi, e dove intorno c’è voglia di partecipare alle feste e niente altro, ancor di più. La comparsa di duemila metri quadri per chi fa musica, cinque studi, l’idea di stare aperti 20 ore al giorno tutti i giorni, e se si chiuderà prima sarà perché via Watt non è 231 E 47th St. – però Warhol pagava 100 dollari l’anno di affitto, chiamalo scemo, e alla fine ha fatto muro ma gli altri volevano solo esserci, e S+F hanno investito qualche milione, che mentre parlano diventano argomento secondario, perché dietro ai canonici «speriamo di rientrarci» c’è una sicurezza da lì a qui mal dissimulata, e che non importa quantificare. Ci rientreranno, andranno ampiamente sopra, perché avranno anche realizzato quello che in molti già preconizzavano, ma i saputi perdono, quegli altri giocano.
I due hanno tratti caratteriali estremamente differenti. Mi dicono che l’idea di Moysa è venuta loro a cena. Le parti in commedia sono chiare. Shablo è programmato per cantare sopra Shablo. Non ci sono pause nel suo discorso. Ci tiene a spiegare, ovvio, ma non gli piacciono i fuori programma. Come molti nella musica, non si fida dei giornalisti. Fa bene, ma le vere ragioni sono opposte rispetto a quelle a cui crede lui. Fabrizio ascolta. È uno attento. Non gli uscirà mai una virgola sbagliata. E invece dovrebbe farla uscire, questa virgola, possibilmente non tra soggetto e verbo. È un uomo di difficile interpretazione ma è un puro. Anche Shablo lo è a suo modo: al discorso di Shablo, alla visione di Shablo, all’ambizione di Shablo. Le tre cose alla fine si fondono. Al di là di giudizi di merito, è uno che ti convince.
Ci voleva un argentino – basta la nascita – per costruire questa Vegas milanese? Penso di sì. Mentre mi raccontano lo spazio ed entriamo in tutte le sale, onestamente non si può non essere positivamente colpiti. È tutto bello, c’è cura, si farà buona musica. Musicisti permettendo. Non so se Moysa raggiungerà anche quella dimensione di confronto creativo tanto auspicata. Non so se sarà popolata dai musicisti nel modo in cui i due fondatori sperano. Non so neanche se ai due interessi più di tanto in realtà. Ma questo è il momento delle dichiarazioni programmatiche, al voto si andrà più in là. In ogni caso il tetto c’è, i muri anche. Saranno riempiti, non c’è dubbio. Si spera non di polli in batteria. Alla volontà di potenza andrà aggiunto l’orecchio, il gusto, e una briglia lunga.
S+F si spendono lungamente sul tema dello «spirito collaborativo» con le major e gli altri centri d’interesse. È un tema di estrema cautela e non potrebbe essere altrimenti. Alla domanda su un’eventuale apertura di un’etichetta discografica il «vedremo» è più di un’ammissione. La mia impressione è che “gli altri” non abbiano ancora capito cosa stia succedendo e che anzi in realtà siamo ampiamente fuori tempo massimo. Nel mentre tutti a bere al bar, ben fatto. Ma c’è di più: questa nuova Libertas chiamata Moysa è settata per non fare la fine di GPT-4, dentro/fuori, decidono i giudici come una gara di tuffi. Moysa è arrivata e ognuno può vedere quel che vuole. È uno studio, è un bar, è un hub, è la Spectre. Intanto si farà anche formazione, ma «per noi» in primis e poi per gli altri, perché «il mercato non è attrezzato», «la discografia è nel momento di massima salute per chi la sa leggere». Insomma si replicheranno. «Siamo entrambi autodidatti, abbiamo dovuto imparare strada facendo», e quel che potrebbe apparire come una mezza debolezza è in realtà l’ennesima dimostrazione muscolare.
C’è qualcosa di bizzarro nel pronunciare B per dire A, ma così è. Il dubbio non si avverte. Fabrizio guida il più clamoroso exploit nella storia della musica leggera italiana, non esistono dispense, personalmente tremerei. Shablo è tante cose, tutte rilegate in eleganti fascicoli collezionabili, tutte a battito controllato, ma alla fine tutte studiate per terminare un gradino sopra il secondo. L’ambizione è colpa, la sicurezza è superbia, forse non ce la faranno. In realtà hanno già vinto e venivano da parecchio dietro. Ora capiremo di quanto.