Leggere Ripartire dal desiderio (minimum fax, 2020) di Elisa Cuter, dottoranda e assistente di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg ed editor della rivista di Treccani Il Tascabile, è stata una boccata d’aria. Ha dato voce a molti dubbi che mi pongo da tempo e che riguardano un approccio critico e il più possibile analitico alla sessualità, al femminismo ma soprattutto al desiderio. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata durante la quale abbiamo scoperto non solo di avere molti punti di vista in comune, ma soprattutto il desiderio – appunto – di voler portare uno sguardo diverso nella narrazione mainstream del femminismo.
Negli ultimi anni si è fatto un largo uso di espressioni quali “femminismo tossico”, “nazifemminismo”, “neofemminismo”. In tutto questo gran parlare a torto o ragione e con più o meno pertinenza di certi concetti, ti ritieni femminista?
Sì, soprattutto in sfregio a definizioni così chiaramente in malafede. Però ho le mie perplessità anche nel definirmi femminista e questo per due ragioni, una più teorica e l’altra più strategica. Il motivo teorico è che ci si accorge sempre di più che il termine è diventato popolare: ormai è sulla bocca di tutti, però è chiaro che si può essere femministi di destra o sinistra e questo è già un problema che mi fa riconsiderare se i tre concetti razza, classe e genere, presi in considerazione dal femminismo intersezionale, sono equivalenti o comunque la forma di oppressione è la stessa ma declinata in altri modi. Mi sembra che il discorso di classe rimanga in qualche modo più dirimente per capire come funziona il mondo, del femminismo liberale o corporate non me ne faccio assolutamente niente.
La motivazione strategica riguarda invece la dinamica delle tifoserie: perché non riusciamo a trovare un altro modo per rendere il femminismo più “sexy”, più interessante, più attraente e altrettanto scorretto come invece fa un certo sessismo sottile ed edgy? Mi sembra che continuiamo a indignarci sterilmente e che in questo modo si fomenti il troll. Si creano fronti di indignazione e si fanno appelli alla morale, che non portano da nessuna parte. Un esempio positivo di divulgazione sul web è Natalie Wynn, in arte Contrapoints, che mi piace non solo per i suoi contenuti e messaggi ma anche perché ha un modo di porsi ironico, sagace, seduttivo, che dà la visione di un mondo più attraente proprio perché è più inclusivo. Sembra che invece la posizione in cui ci si mette sia sempre della povera vittima, come fanno anche alcune influencer che trattano questi temi.
Concordo, credo che sia anche una delle ragioni per cui ho apprezzato tantissimo il tuo libro: non semplifica aprioristicamente questioni intricate che richiedono riflessioni ampie e articolate.
Mi sembra che sia un testo accessibile, ma ci sono parti in cui sono la prima a non venirne a capo perché esistono una serie di problemi che vanno visti per quello che sono, ossia problemi. Non volevo fornire una soluzione che fosse univoca e dire “adesso fate come dico io!” – che mi sembra invece quello che cercano di fare, appunto, queste influencer.
Sì, con pseudo-soluzioni prescrittive: allora dov’è la libertà dell’individuo? Critichi un potere coercitivo per sostituirlo col tuo?
Esatto. Mi è stato detto che nel libro non parlo davvero di desiderio, che dico che è la soluzione ma senza spiegare davvero che cos’è. Ho replicato che il desiderio è qualcosa di individuale, ognuno deve capire qual è il suo e questo genera dei conflitti nella società. Sta a ciascuno capire come e cosa vuole e capire anche se questa cosa la può ottenere, se questo desiderio incontra quello dell’altro, ma non voglio dire come immagino il mio paradiso, quali sono le mie fantasie erotiche, perché tanto non posso dire “desidera così!”. è proprio questo il punto, un po’ la famosa differenza tra dare a qualcuno il pesce o insegnare a pescare.
Certo, fornire gli strumenti. Ho inoltre approvato particolarmente il passaggio in cui parli della ragazza che su Instagram si mostra mezza o tutta nuda e riceve dei commenti pubblici e/o privati, la cui ormai classica reazione è “il fatto che mi sia mostrata così non significa che sia un oggetto sessuale” che secondo me sottintende “il fatto che mi mostri nuda non ti autorizza non solo ad eccitarti ma pure a venirmelo a dire”.
Secondo me è un retaggio dell’idea che se tu hai un desiderio sessuale e sei una donna, non lo puoi dire. Devi dire che lo stai facendo perché ti stai emancipando, perché ti stai riappropriando dello sguardo. Non è ancora passata l’idea che se lo fai perché semplicemente hai voglia di sedurre o di scopare, banalmente, non c’è niente di male. Questa cultura che si pretende tanto emancipata è ancora impregnata di sessuofobia..
Mi fa sorridere il candore della rivendicazione di essere troie (sacrosanta, peraltro), ma solo a certe condizioni: è un ossimoro. Mi pare un’emancipazione di facciata.
In questo contesto c’è pure chi vuole educare gli uomini: perché il loro desiderio va educato, altrimenti sarebbero degli animali, invece devi spiegare loro che non va bene scambiarsi foto di corpi sezionati – senza la faccia, per dire. È una visione talmente ingenua di come funziona la sessualità, che queste persone pensano come legata ai sentimenti, al rispetto, mentre il sesso è anche questa cosa qua, che riduce dei corpi a corpi. Questo non vuol dire che una sessualità più libera e consapevole dei suoi meccanismi genererà una violenza inaudita, ma che non siamo in grado di fare i conti col fatto che il nostro desiderio non è così illuminato, così razionale come vorremmo che fosse e che è tutta una questione di negoziazione. Avere paura di ammettere che, non so, ti eccita vedere un paio di tette, altrimenti stai mancando di rispetto a una persona, mi sembra il catechismo.
In quest’ottica, cosa pensi della narrazione che vuole che i maschi si educhino fra loro a non essere predatori? Perché, se penso al ruolo di influencer, ritrovo prevalentemente donne e persone della comunità LGBT.
Se andiamo a monte della responsabilità di questo atteggiamento predatorio è da ricercarsi nella suddivisione del lavoro, che fa sì che gli uomini abbiano da un lato il mito della figa, ma dall’altro la sensazione che questa donna con cui si mettono è comunque inferiore paragonata al rispetto che si vuole dai colleghi e dal capo o comunque nel mondo sociale dei maschi. Le donne li attraggono ma allo stesso tempo non le rispettano abbastanza, non si mettono alla pari: è un macigno storico che ci si porta avanti da generazioni. L’unico modo, secondo me, di andare in un’altra direzione sarebbe un discorso più onesto e sereno riguardo il sesso, che si faccia carico delle sue contraddizioni e complessità – non il sex positive all’acqua di rose, ma che faccia i conti con queste dinamiche qua, perché la liberazione sessuale della fine degli anni Sessanta è stata quella che in seguito ci ha dato leggi sul divorzio e l’aborto e a quel punto ottieni cambiamenti sociali reali di cui potrebbero beneficiare tutti se ci fosse più apertura mentale.
Un’altra tua riflessione che mi ha colpito è stata quella sulla femminilizzazione del mondo, che non ha ribaltato dinamiche di potere, ma anzi ha fatto sì che si diffondesse un senso di impotenza, tanto che riconosci una similitudine tra le narrazioni del movimento #metoo e quelle degli incel.
Ragionavo proprio negli ultimi giorni su questi poli che dovrebbero essere opposti e invece hanno identiche modalità identitarie, come se facessero il giro: sono in realtà la stessa cosa e non comunicheranno mai perché stanno costantemente cercando di differenziarsi su punti che li unirebbero, senza trovare quella che potrebbe essere una visione politica comune.
Abbiamo traslato il discorso politico su quello morale invece di pensare che la vita è negoziazione: facciamo parte di una società in cui dobbiamo concertare una serie di interessi differenti. Questo invece è diventato impossibile.
Pensi che la nostra generazione sia meno capace di fare compromessi rispetto a quelle precedenti?
Sì, ma al contempo mi sembra che ne accettiamo altri che al contrario una volta sarebbero stati totalmente impensabili. Siamo messi davanti a degli aut-aut e quello che resta è un senso di impotenza generale, però dall’altro lato l’uscita sessista di Tizio o Caio è talmente intollerabile che si mette una croce sopra questa persona e non solo non si prova a farle cambiare idea ma non c’è nemmeno la volontà di capire da dove derivi una serie di pregiudizi, da dove nasca una serie di idee sbagliate.
Nell’ultimo capitolo del libro hai fatto dichiarazioni scomode, me ne parleresti?
Ti confesso che dopo avere letto un pezzo di Franco “Bifo” Berardi in cui diceva che i giovani dovrebbero smettere di sentirsi degli eroi per avere preferito di starsene a casa evitando di mettere a rischio la salute dei familiari più anziani anziché fondare una comune dove stare insieme, scopare e vivere la vita, mi sono detta che dovevo farlo, dovevo scrivere l’ultimo capitolo che ha tesi simili. Però ero un po’ preoccupata, temevo che mi stesse sfuggendo qualcosa. Non ne vengo a capo col fatto che sono un individuo isolato che deve sobbarcarsi tutta una serie di responsabilità e doveri, a maggior ragione se donna, perché ho sulle spalle il lavoro di cura su di me, sulla famiglia, sui bambini, sulla società.
Per come immagino l’esperienza della maternità o in generale come vivo il lavoro di cura o come vorrei che le persone lo vivessero, è più il fatto che nel momento in cui diventa una scelta e non più un’imposizione, puoi dire quali sono i tuoi limiti, cosa vuoi fare e cosa no. Quando cito la battuta di Ali Wong, che dice che piuttosto di lavorare per le donne era “meglio quando stavamo a casa tutto il giorno a mangiare snack e guardare Ellen!”, penso che in realtà le donne abbiano avuto anche la fortuna di potersi occupare di cose che nella vita potrebbero essere più gratificanti come le relazioni, la comunicazione, gli affetti. Se tutte queste cose diventassero un valore condiviso, se non restassero un privilegio o viceversa una condanna, vedremmo molti uomini che per esempio utilizzerebbero il congedo di paternità o si assumerebbero questo incarico.
Mi fa impressione che per un sacco di persone invece il lavoro – inteso proprio come dovere di guadagnare o identificarsi con esso – sia un’ideologia. Quando sento “fateci lavorare! Fateci riaprire, vogliamo lavorare, non vogliamo sussidi statali!”, penso: ma non è un desiderio un po’ triste? Forse si può desiderare qualcosa di meglio. C’è un sacco di gente che è straconvinta di questo ed è la cosa che mi spaventa di più, che la dignità e il valore come essere umano dipendano soltanto da se e quanto si produce, ed è molto difficile far capire che c’è dell’altro in un sistema che comunque impone di guadagnare altrimenti si crepa, quindi direi che l’ideologia va di pari passo con le condizioni materiali.
Sulla base di questo, ritieni che questo anelito di libertà imponendosi però ulteriori tabù potrebbe essere paura di guardare in faccia questo desiderio seppure a livello inconscio e irrazionale?
Secondo me non è del tutto razionale ma allo stesso tempo mi piace come la pensa Alenka Zupančič, che afferma che la sessualità umana è più sfaccettata del mero istinto alla procreazione e questo la rende anche molto più perversa, perché sei capace di erotizzare qualunque cosa e quindi anche la parte intellettuale non è razionale. Una cosa su cui mi piace fare ricerca sono i vari feticismi, che – di nuovo – sono il contrario di quell’idea di amore romantico che deriva da un’ideologia totalmente patriarcale secondo cui ci si innamora della persona nel suo intero, ma questo non la rende un’esperienza meno intellettuale, ci sono molte cose da esplorare.
Per ciò che riguarda la paura, viviamo in un contesto dove non ci è data la possibilità di sperimentare, dove bisogna stare attenti a ogni cosa che si dice perché siamo costantemente visti sui social, in cui dobbiamo costantemente venderci. Mi fa ridere chi denuncia la mancanza di libertà dei regimi di altre epoche: perché, adesso invece c’è? Non mi sembra, e di questo a sinistra si parla sempre meno perché ci si concentra anche comprensibilmente su temi come l’uguaglianza. Adesso se dici “libertà” ti viene subito in mente Berlusconi, però a me dispiace che non riusciamo a pensare a un mondo di uguali come anche un mondo libero. Per me invece è esattamente questa la conseguenza! Vorrei davvero avere la possibilità di smettere di avere l’ansia, di preoccuparmi di come arriverò a fine mese, di come mi vedranno alcuni se faccio una certa affermazione, mettere a tacere tutti quei calcoli mentali che mi dicono che non posso inimicarmi quello o quell’altro. Vorrei vivere in un contesto in cui da questo non dipende la mia sussistenza e mi sentirei davvero libera di scoprire un sacco di cose, quindi non mi sento di condannare in toto questa paura: anche avere il coraggio di parlare liberamente, se vuoi, è un privilegio.
Da qui ti chiedo: il femminismo è poco autocritico o addirittura non lo è affatto?
Soprattutto i femminismi più mainstream mi sembra che siano totalmente autoassolutori: fanno sempre le cose giuste, è colpa degli uomini cattivi, quelli buoni invece hanno seguito i corsi per diventare persone rispettose. Se hai quest’idea degli uomini, se per te sono di default dei bruti che devono essere educati, allora vuoi qualcuno che ti rispetta perché si è convinto che sia la cosa giusta da fare. Mi sembra una visione davvero triste, rinunciataria, disillusa.
Non è così che funziona il desiderio. Le relazioni non funzionano sul senso del dovere reciproco, ma sul fatto che le persone si piacciono e ci possono essere dei conflitti; la questione del rispetto è una base minima perché l’altra persona ti piace e vuoi che stia bene, non perché sei convinto a livello puramente morale che anche lei merita di essere guardata come un essere umano.
Mi chiedo allora cosa si voglia ottenere, perché se si pensa questo degli uomini è una causa persa in partenza. Penso che – se hai ancora un po’ di spirito critico e d’ironia – questo tipo di femminismo ti faccia diventare un troll, perché tutti questi appelli a essere delle brave persone sono l’ennesima imposizione che riceviamo. Ma divertiamoci piuttosto: la trasgressione alla norma, i discorsi problematici erano di sinistra fino all’arrivo di Berlusconi, poi è arrivato lui e si è preso il ruolo del giullare. E però immagino che ai suoi festini ci si divertisse anche.
Ammettere di essere affascinati dal nemico.
Questo è il bello della sessualità umana, che ti fa trascendere tutti i limiti che ti sei imposto a livello etico, è un’esperienza che ti fa uscire da te stesso. Quello che puoi scoprire su di te tramite il sesso è pazzesco. Essere attratti da ciò che ti ripugna lo vedo come un’apertura alla vita. Riconoscere i “nemici” anche tra persone che ti stanno più vicine apre al dialogo e al confronto. Il fatto che ci sia un dibattito interno rispetto alle questioni femministe, posto dove ci vogliamo posizionare noi rispetto a queste, è tutto positivo perché significa che c’è una conversazione e non polarizzazioni.