Rolling Stone Italia

Campione per sempre: la storia di Muhammad Alì

"So chi sono e so che non voglio essere quello che voi volete che io sia. Voglio essere me stesso". L'incredibile storia del pugile diventato leggenda, che ci ha lasciati quest'anno

La gente lo disprezzava, lo insultava persino. Alcuni lo temevano. Anche quando ha dimostrato di essere quello che proclamava, ovvero il pugile più veloce e impressionante che si sia mai visto su un ring e un uomo di colore che aveva il coraggio di mostrare il suo orgoglio e non si sottometteva alle convenzioni comuni, era un personaggio troppo difficile da sopportare. Era una minaccia implicita. In molti, erano milioni di persone in realtà, guardavano i suoi combattimenti solo perché speravano di vederlo finire al tappeto.

Questo succedeva all’inizio, prima che le cose diventassero serie, prima che Muhammad Ali cambiasse la storia del suo Paese e diventasse un esempio di coraggio per tutto il mondo. Il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 3 giugno 2016 all’età di 74 anni dopo una lunga battaglia contro una malattia degenerativa, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha citato un pezzo di un suo celebre discorso: “Io sono l’America. Sono la parte che non volete riconoscere. Ma vi dovrete abituare a me: un nero molto sicuro di sé, aggressivo. Con il mio nome, non quello che mi avete dato voi, la mia religione e non la vostra, i miei obiettivi. Abituatevi a me”. Ali è stato un simbolo dell’America nel momento della sua evoluzione dopo decenni di odio, paura, violenza. Un momento in cui l’America ha messo in dubbio le sue stesse promesse, dando vita ai peggiori paradossi della sua storia, dalla lotta per il riconoscimento dei diritti civili ai propositi di guerra, fino alle dispute ideologiche su uno dei suoi valori fondamentali, la libertà di religione. Lui ha portato in primo piano e messo in chiaro tutti questi temi, anche a costo di commettere peccati e affrontando sconfitte inconfutabili nel corso degli anni.

Nel 1996 Muhammad Ali è apparso alla cerimonia di inizio delle Olimpiadi di Atlanta nei panni dell’eroe assoluto, universalmente uno dei più riconosciuti al mondo. La sua cattiva reputazione era svanita nel nulla da tempo. Aveva vinto una medaglia d’oro ai giochi Olimpici del 1960, ma l’aveva rifiutata per protesta contro il razzismo della società americana. Nell’intervallo di una partita di basket ad Atlanta, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale gli ha consegnato un premio sostitutivo mettendogli intorno al collo una medaglia appesa a un nastro rosso. Ali l’ha guardata per un momento, ha sorriso e l’ha avvicinata alle labbra con la mano destra, mentre la sinistra continuava a tremare senza sosta, e l’ha baciata. Non ha detto una parola. Muhammad Ali non ha più parlato in pubblico, era troppo devastato dal Parkinson, che secondo molti era una conseguenza degli anni passati sul ring. Ha trascorso metà della sua vita valutando le conseguenze del suo essere così spavaldo in passato in relazione all’eternità.

«Ho conquistato il mondo», ha detto una volta, «ma questo non mi ha dato la felicità». Sapeva però di aver speso bene il suo tempo. Nel bene e nel male, Ali ha permesso solo a se stesso di darsi dei limiti. L’ex campione del mondo dei pesi massimi George Foreman, che una volta, come tutti sanno, ha cercato di imporsi su di lui e di distruggerlo, ha riconosciuto in seguito quale fosse la sua vera motivazione: «Aveva trovato qualcosa per cui combattere, oltre ai soldi e al titolo di campione. E quando un uomo trova una ragione per combattere diventa praticamente imbattibile». Questa è la storia di un uomo che ha preso la sua paura, quel terrore instillato dentro di lui dalla storia del suo stesso popolo, e l’ha trasformata in qualcosa di cui la paura stessa doveva avere paura.

Muhammad Ali nasce con il nome di Cassius Marcellus Clay il 17 gennaio 1942 a Louisville, Kentucky, primo figlio di Cassius Clay Sr. e di sua moglie Odessa. Odessa ha la pelle chiara, perché ha una linea di sangue bianco nella sua famiglia d’origine, e lavora come cuoca e domestica per le famiglie dei ricchi bianchi della città. È stata lei a insegnare il valore della dignità ai propri figli, e molti pensano che Ali abbia preso da lei il suo buonumore. Cassius Clay Sr. invece ha un carattere diverso. Il suo nome viene da quello del proprietario di una piantagione che divenne poi un ardente abolizionista e liberò i suoi schiavi. Clay Sr. è fiero di questo, ma sa che la vita nell’America bianca, nello Stato di confine del Kentucky, mette a dura prova le speranze di un uomo nero. Sognava di fare l’artista, e invece lavora come pittore di insegne di negozi. Ali ha raccontato che fu suo padre a raccontargli la terribile storia di Emmett Till, un ragazzo di 14 anni di Chicago che nell’estate del 1955 venne picchiato e ucciso con un colpo di pistola alla testa nel Mississippi per aver parlato con una donna bianca in un negozio. «Restavo sveglio tutta la notte in preda al terrore», ha raccontato a Gordon Parks di Life, «avevo sempre paura che qualcuno venisse linciato».

Clay Sr. beve e frequenta altre donne, è violento e Odessa è costretta a chiamare la polizia più di una volta. Crescere in un ambiente teso e con un senso di paura costante causato dal comportamento instabile di uno dei genitori può far nascere in un bambino premonizioni su possibili pericoli e un forte istinto di protezione. Può anche far nascere il desiderio di costruire un rifugio sicuro.

Nell’ottobre del 1954, Cassius Clay scopre che la sua bicicletta nuova è stata rubata. Si rivolge a Joe Martin, un poliziotto bianco che insegna boxe in una palestra vicino a casa e gli dice che vuole trovare il ladro e picchiarlo. Martin gli risponde: «Forse è meglio se prima impari a combattere». In una foto scattata durante i primi allenamenti, il giovane Cassius Clay ha un’espressione allo stesso tempo preoccupata e risoluta. Vince il primo incontro e, contro il parere del padre che non vuole che venga allenato da un poliziotto, comincia a passare più tempo in palestra che in casa: «Ali ha trovato un modo per fare uscire la paura tormentando il suo avversario», ha raccontato Martin.

A 18 anni, Clay ha già combattuto 108 incontri (vincendone 100), ha vinto due campionati Golden Gloves e viene selezionato per far parte della nazionale olimpica americana ai giochi di Roma del 1960. Torna a casa con una medaglia d’oro. Un gruppo di uomini d’affari del Kentucky si incarica di gestire il giovane talento e di proteggerlo dalla corruzione diffusa nel mondo della boxe e lo manda a Miami ad allenarsi con uno dei coach più rispettati del Paese, Angelo Dundee. “Angelo ha capito immediatamente che, dal punto di vista tecnico, Clay sbagliava quasi tutto, però era in grado di vincere grazie alla velocità e ai riflessi”, ha scritto il suo biografo Thomas Hauser. Una delle caratteristiche meno ortodosse del suo modo di boxare consiste nel tenere sempre le braccia basse, lasciando la guardia scoperta ed esponendosi ai colpi. Inoltre, mentre la maggior parte dei pugili schiva i pugni muovendo la testa rapidamente a destra e a sinistra o abbassandola, Clay fa dei rapidi passi all’indietro e tira indietro il collo mantenendo sempre lo sguardo fisso sul colpo che arriva, come se volesse misurare la distanza tra lui e l’avversario.

I commentatori dicono che questa tecnica lo farà finire al tappeto presto. Invece succede molto raramente, al punto che le poche volte che è successo sono entrate nella storia nella boxe. Clay sa come sferrare un jab e fare male: «Lui lo chiamava: “Il morso del serpente”», racconta Ferdie Pacheco, che lo incontra in palestra a Miami e diventa da allora il suo medico personale. Un altro suo marchio di fabbrica è colpire quasi esclusivamente alla testa e mai al corpo. A lui, invece, non piace per niente essere colpito in testa: «La tua faccia e i tuoi denti sono tutta la tua vita», dice al New York Times.

Il modo di fare di Clay, che non dimostra nessuna considerazione verso le regole e le graduatorie, è difficile da sopportare per gli altri pugili. Clay li punzecchia e li fa infuriare, una tecnica che dice di aver preso dal lottatore di wrestling Gorgeous George dopo averlo visto combattere a Las Vegas nel 1962. George era un personaggio oltraggioso, saliva sul ring con una lunga chioma bionda splendidamente acconciata e si inginocchiava in segno di scherno davanti alla folla che lo insultava: «Ogni volta mi dicevo: voglio vedere questo incontro, non importa se vince o perde», ha raccontato Clay a Thomas Hauser. A quei tempi, agli atleti neri era richiesto di mostrare rispetto verso gli avversari, soprattutto quelli bianchi. Dopo le imprese di Jack Johnson, che nei primi del ’900 sminuiva così tanto gli avversari da mettersi a fare conversazione con la gente a bordo ring durante gli incontri, i pugili non potevano esultare né comportarsi in modo arrogante. Dopo Johnson, a nessun pugile di colore viene permesso di competere per il titolo mondiale, fino a Joe Louis che lo vince nel 1937. Adesso, nei primi anni ’60, Cassius Clay ridicolizza i suoi avversari e si vanta di fronte alla stampa, che lo osserva sempre più scettica: «Per battermi devi essere il più grande tra i grandi!». Arriva persino a predire ai giornalisti il round in cui manderà al tappeto il suo avversario. Joe Louis in persona lo ammonisce pubblicamente: «Ragazzo, faresti meglio a non credere a metà delle cose che dici». Ma Clay non si fa scoraggiare: «Entro la fine del 1963 sarò il campione più giovane della storia». Le sue sbruffonate scatenano un fermento che non si vedeva da anni nel mondo della boxe. Quelli che lo vedono crescere come professionista a Miami e lo vedono vincere 19 incontri di seguito tra la fine del 1960 e l’estate del 1963 lo considerano la nuova speranza della boxe: «Tutti pensavano che fosse il prescelto», ha detto Pacheco.



È la fine del 1963 e Cassius Clay è pronto a incontrare quello che lui stesso ha definito «l’orribile orso gigante», il campione dei pesi massimi Sonny Liston, il pugile più temibile della storia e uno di quelli con la peggiore reputazione. Liston ha un passato criminale, ha imparato a combattere in carcere e si dice abbia legami con le organizzazioni criminali che si sono infiltrate nel business della boxe in America. Clay comincia a inseguirlo ovunque. Una sera si presenta in un casino di Las Vegas, dove il campione sta giocando e perdendo ai dadi. Il promoter Harold Conrad, che era presente quella sera, racconta che Clay ha cominciato a prenderlo in giro per la sua sfortuna al gioco: «A un certo punto Liston ha lanciato via i dadi, si è avvicinato a Clay e lo ha minacciato: “Ascolta, finocchio di un negro! Se non sparisci entro 10 secondi ti strappo la lingua e te la infilo nel culo”». L’incontro viene fissato a Miami il 25 febbraio 1964. Quando Liston atterra a Miami, Clay si presenta in aeroporto e lo segue per tutta la città. A un certo punto Liston ferma la sua limousine, scende in strada e lo minaccia: «Ti prendo a pugni». Ma Clay non molla: «Date pure l’ultima occhiata!», dice alla gente che si raduna fuori dalla palestra in cui si allena Liston, «sono io il vero campione». Nonostante la spavalderia, però, Clay ha paura: «Liston può spezzarti il braccio con un pugno», dice. Quello che nessuno sa è che Clay ha una fonte di ispirazione segreta, una vita interiore nascosta, che diventerà presto di dominio pubblico.
A partire dal 1964, Clay si interessa alla questione razziale in America, ma mentre i leader del movimento per i diritti civili, tra cui Martin Luther King Jr., professano la non violenza, Clay la pensa diversamente: «Io sono un combattente», dice in un’intervista con il New York Post, «se uccidi il mio cane, farai meglio a tenere d’occhio il tuo gatto».

Clay si avvicina alle dottrine della Nation of Islam, di cui condivide l’idea secondo cui gli afroamericani devono essere fieri della loro identità e devono prendere in mano il proprio destino senza attendere il riconoscimento dei diritti civili. Il volto più noto del movimento (conosciuto anche con il nome di Black Muslim) è Malcolm X, che dal 1954 presiede la moschea di Harlem ed è il braccio destro del leader della Nation of Islam, Elijah Muhammad. Il messaggio fa subito presa su un giovane uomo che da piccolo faceva incubi sulla tragica storia di Emmett Till. Malcolm X non conosce Clay. La Nation of Islam considera la boxe una forma di sfruttamento dei neri da parte dei bianchi, ma, quando i due si incontrano nel 1962, Malcolm X viene conquistato subito dall’entusiasmo di Clay e capisce che può essere molto utile per diffondere i precetti della Nation of Islam tra i giovani afroamericani: «Questo combattimento è la verità», gli dice prima del match contro Liston a Miami, «credi che Allah abbia fatto tutto questo per non vederti scendere dal ring indossando la cintura di campione?». Clay cerca di tenere nascosta la sua adesione alla Nation of Islam, ma nel febbraio del 1964 suo padre Clay Sr. rilascia una dichiarazione al Miami Herald: «Cassius è diventato musulmano, gli hanno fatto il lavaggio del cervello per fargli odiare i bianchi e ha deciso che subito dopo il match cambierà nome». I promoter dell’incontro minacciano di cancellarlo, Malcom X è costretto a lasciare Miami, ma torna il giorno dell’incontro e si siede a bordo ring insieme al cantante Sam Cooke e al suo manager Allen Klein. Clay è ormai un personaggio scomodo per l’America, viene considerato persino una minaccia. Il risultato è che Sonny Liston, per la prima volta nella sua vita, si ritrova con un compito: chiudergli la bocca e rimetterlo al suo posto.
Il giorno del match, Clay si presenta alla cerimonia del peso gridando: «Non hai nessuna possibilità! Ti stendo!». Un giornalista scrive addirittura che l’incontro andrebbe sospeso perché Clay si sta mettendo in pericolo da solo. Il New York Times chiede al suo inviato di misurare il percorso più breve dal ring all’ospedale.
Quando i due pugili si incontrano in mezzo al ring, la percezione delle cose cambia immediatamente: Ali è più grosso di Liston. Al suono del gong lo sfidante comincia ad andare incontro al suo avversario e a girargli intorno per non dargli punti di riferimento. Liston spara colpi pesanti, che spesso finiscono fuori bersaglio. Nel terzo round Clay lo colpisce allo zigomo sinistro e gli procura una ferita. «L’ho guardato negli occhi», ha raccontato, «e ho visto il suo stupore per il fatto di essere lui quello che stava sanguinando».

Nel libro King of the World, David Remnick svela che durante il match Liston chiese ai suoi secondi di «ungergli i guanti», cioè cospargerli di un unguento urticante in grado di accecare momentaneamente l’avversario. La mossa funziona: Clay finisce il quarto round con gli occhi totalmente irritati. «Ci ha chiesto di interrompere l’incontro», ha raccontato Pacheco. Dundee deve intervenire per impedirgli di protestare con l’arbitro. Sa che, se l’incontro viene fermato, Clay non avrà mai un’altra possibilità di combattere per il titolo. Gli pulisce gli occhi, lo spinge sul ring e gli dice: «Big Daddy, questa è la tua notte». Alla fine del sesto round Liston torna al suo angolo, sputa il paradenti e dice: «È finita». Cassius Clay è il nuovo campione mondiale dei pesi massimi. Si fa largo tra la folla e grida ai giornalisti scioccati: «Rimangiatevi le vostre parole! Ve l’ho detto e ripetuto, sono il re del mondo! Dovete inchinarvi davanti a me». Il giorno dopo, in sala stampa, un giornalista gli chiede: «Sei un esponente ufficiale del movimento Black Muslim?», e lui risponde: «Non so cosa voglia dire questa parola. So chi sono e so che non voglio essere quello che voi volete che io sia. Sono libero di essere me stesso». Questa frase rimarrà nella storia.

“È stata una scarica di elettricità”, ha scritto lo storico della boxe Gerald Early, “non avevo mai sentito un uomo di colore dire una cosa del genere, men che meno un atleta”. Il nuovo campione dichiara anche che non si chiamerà più Cassius Clay, perché i nomi degli afroamericani non esistono, sono solo i nomi che gli hanno assegnato gli schiavisti bianchi: «Da oggi mi chiamerò Cassius X». In un solo giorno Cassius Clay è passato da essere uno spaccone fastidioso a una minaccia per l’America bianca.
«Clay è il miglior atleta nero che abbia mai conosciuto», ha detto Malcolm X, «farà più lui per il nostro popolo di chiunque altro». In Cassius Clay, Malcolm X trova un compagno e un esempio, ma il loro rapporto diventa molto tormentato. Nascono attriti tra Malcolm X e il suo leader Elijah Muhammad, e Clay deve prendere una posizione. L’11 marzo 1964 Malcolm X annuncia di voler lasciare la Nation of Islam e per fondare un suo movimento e di essere aperto alla collaborazione con altri attivisti come Martin Luther King. Elijah Muhammad dice a Louis Farrakhan, che lo ha sostituito come portavoce e predicatore, che agli ipocriti come lui «andrebbe tagliata la testa». Pochi giorni dopo Cassius Clay dichiara la sua adesione alla Nation of Islam e Elijah Muhammad lo accoglie dandogli un nuovo nome, Muhammad Ali, che significa: “Amato da Dio”. I due ex amici si rincontrano solo una volta per caso fuori da un hotel in Ghana nella primavera del 1964. Malcolm dice: «Fratello, ti amo ancora e sei ancora il più grande». Ali risponde: «Fratello Malcolm, abbandonare il Venerabile Elijah Muhammad è stato un errore», gli volta le spalle e se ne va. Il 21 febbraio 1965 Malcolm X viene ucciso da tre uomini armati subito dopo essere uscito sul palco della Audubon Ballroom di Harlem. La stessa notte l’appartamento di Ali a South Side Chicago viene distrutto da un incendio. Alcuni sostengono che sia una rappresaglia per aver lasciato Malcolm X. Altri, tra cui la moglie Sonji, sono convinti che sia un avvertimento da parte della Nation of Islam a non tradirli. Ali non dice niente sull’assassinio di Malcolm X. Solo nel 2004, nel libro Con l’anima di una farfalla, scrive: “Voltargli le spalle quel giorno è stato uno degli errori di cui mi pento. Avrei voluto chiedergli scusa”.

La rivincita contro Liston che avviene in un piccolo centro sportivo a Lewiston, nel Maine, è ancora più emozionante del primo incontro. Ali sale sul ring sommerso dai fischi e comincia a girare intorno a Liston, come ha fatto nel primo match. Poi, mentre Liston sferra un colpo maldestro ed è sbilanciato sulle gambe, Ali risponde rapidamente con quello che sembra solo un destro che lo colpisce di striscio alla testa. Liston cade al tappeto. Rimane giù per diversi secondi, rotolandosi e cercando di rialzarsi. Succede tutto così in fretta che il pubblico quasi non se ne accorge. L’arbitro Jersey Joe Walcott cerca di mandare Ali all’angolo per contare. Ali è sconvolto come tutti, si mette in piedi sopra all’avversario steso a terra con il pugno pronto a partire e gli grida: «Alzati e combatti, coglione!». Liston si rialza, ma è terrorizzato. Walcott ferma l’incontro, Ali ha vinto in meno di due minuti. Il pubblico fischia, molti pensano che Liston abbia venduto l’incontro. Lo stesso Ali dirà in seguito: «Era un buon colpo, ma non credo che fosse così forte da non farlo rialzare». Liston trascorre il resto della sua vita a Las Vegas, combatte e vince altri match, ma non ritrova più la gloria perduta quella notte. Il 5 gennaio 1971 sua moglie Geraldine torna a casa e lo trova morto nel letto, forse a causa di un’overdose di eroina. Quando ad Ali chiedono se abbia una dedica in memoria di Liston, lui risponde: «Amico, mi hai fatto davvero paura».

Nel frattempo, la guerra in Vietnam si intensifica e Ali rischia di venire arruolato. A 18 anni era stato classificato “1-Y”, cioè non idoneo (è dislessico e ha problemi a leggere), ma poi la sua valutazione viene modificata in “1-A” e quindi ora è arruolabile nell’esercito. Lui reagisce dicendo che non condivide la politica di guerra degli Stati Uniti, una mossa che lo rende ancora più popolare tra i giovani americani, sia bianchi che neri. «Non ho niente contro i Vietcong», dice, «nessuno di loro mi ha mai chiamato “negro”». Si dichiara obiettore di coscienza, motivando la sua decisione con la fede nella Nation of Islam. Il Governo rigetta la sua richiesta definendo la sua religione «razzista e politicizzata».

Il 28 agosto 1967 Ali rifiuta la chiamata alle armi. Meno di un’ora dopo la New York State Athletic Commission gli revoca il titolo, ritira la sua licenza di pugile e gli vieta di combattere nello Stato di New York, una decisione adottata subito da tutti gli altri Stati americani. Muhammad Ali non è più il campione, non può combattere negli Stati Uniti e nemmeno all’estero. Viene processato per renitenza alla leva e condannato alla pena massima: cinque anni di carcere e 10mila dollari di multa: “Se tutto quello che mi era rimasto nella vita era andare in prigione e dimenticarmi della boxe, ero pronto ad affrontarlo”, ha scritto nella sua biografia The Greatest. La persecuzione del governo ha l’effetto di far crescere il rispetto degli esponenti della politica, compresi i leader neri che non hanno accolto bene la sua adesione alla Nation of Islam.
Ali ha già previsto la lunga squalifica: «I giornali danno al pubblico americano e a quello di tutto il mondo l’impressione che io abbia solo due alternative: andare in guerra o andare in prigione. Ma ne esiste un’altra ed è la giustizia».
La World Boxing Association organizza una serie di incontri dai quali, nel febbraio del 1970, emerge un nuovo campione dei pesi massimi, Joe Frazier. I tre anni e mezzo di squalifica di Ali, che ha 25 anni, coincidono con quello che avrebbe potuto essere il suo momento migliore. Nel 1969, quando gli chiedono se pensa un giorno di tornare sul ring, Ali risponde: «Perché no? Se mi danno abbastanza soldi».

Nel luglio del 1970 il senatore della Georgia Leroy Johnson decide di fare un tentativo; la Georgia però non ha una commissione sportiva e l’autorità ricade su Atlanta. La concessione della licenza a combattere viene però ostacolata dal governatore Lester Maddox, che ha basato la sua campagna elettorale sull’opposizione all’integrazione razziale (dopo l’omicidio di Martin Luther King nell’aprile del 1968, Maddox lo ha definito: «Un nemico del Paese»). Atlanta concede ad Ali il permesso di combattere contro Jerry Quarry il 26 ottobre del 1970. Maddox fa di tutto per fermare il match, ma non ci riesce. È un ritorno trionfale: al Municipal Auditorium di Atlanta, Ali è veloce, domina l’incontro e nel terzo round infligge a Quarry una ferita troppo profonda per farlo continuare. Qualche settimana dopo Ali batte anche Oscar Bonavena e annuncia: «Ora vedrete chi è il vero campione».

Anche Joe Frazier è un pugile formidabile, come Ali ha vinto una medaglia d’oro olimpica a Tokyo nel 1964 e il titolo di campione del mondo: «Non lo invidio», dice Ali, «non se l’è guadagnato». Lo stesso Frazier dice che la squalifica di Ali è ingiusta e nel 1969 ne parla persino con il presidente Richard Nixon durante una visita alla Casa Bianca. In The Greatest, Ali racconta di un viaggio in macchina con Frazier da Philadelphia a New York in cui hanno parlato del loro inevitabile destino di ritrovarsi sul ring: «Dopo averti sculacciato, ti comprerò un gelato», gli dice Frazier. Ali è stupito del fatto che qualcuno pensi di poterlo battere: «Da quel giorno non ci siamo più guardati negli occhi».
Comincia una nuova sfida e Ali usa una nuova strategia. In passato non ha mai denigrato i pugili bianchi né fatto commenti razziali. Dei pugili neri diceva che erano avversari più temibili, ora però comincia ad attaccarli dicendo che sono dei rimpiazzi del potere bianco. Una tattica che diventa particolarmente aggressiva con Frazier: Ali mette in discussione la sua autenticità, le sue intenzioni e persino la sua stessa appartenenza: «È il tipo sbagliato di negro, non è come me», dice in televisione: «Lui è lo Zio Tom, lavora per il nemico».
È una mossa per attirare l’attenzione sul match, ma Frazier la prende sul serio: «Volevo seppellirlo», ha raccontato. È una guerra psicologica che anima ogni aspetto dell’incontro fissato l’8 marzo 1971 al Madison Square Garden di New York e subito ribattezzato: “L’incontro del secolo”.

«Io rappresento la verità», dice Ali a Rolling Stone nel 1971: «Il mondo è pieno di gente oppressa e povera e sono tutti con me, non sono per il sistema. I militanti neri, gli hippy bianchi, i renitenti alla leva, tutti vogliono la mia vittoria». Il ring del Madison Square Garden diventa il simbolo di un’America profondamente disunita. Prima del match, nel suo spogliatoio, Frazier recita una preghiera: «Signore aiutami a uccidere quest’uomo perché non è un uomo giusto». Niente però sembra smontare Ali: «Se Frazier me le dà, io striscerò sul ring, gli bacerò i piedi e gli dirò: “Sei il più grande”». Frazier è al massimo della forma, ondeggia, si muove a zig-zag e avanza con la potenza di un treno. Nei primi round, Ali riesce a controllarlo con pugni potenti e precisi, ma Frazier lo colpisce inesorabilmente, come se stia assaporando i suoi colpi e glieli voglia restituire. La situazione rimane in stallo per un’ora, poi, nel 15esimo e ultimo round, Frazier sferra un destro al braccio di Ali facendoglielo abbassare giusto il tempo per piazzare uno spettacolare gancio sinistro che lo colpisce in pieno. Ali cade sulla schiena, si volta verso sinistra, appoggia il ginocchio e si rialza in meno di due secondi. «Una mossa che mi ha sorpreso», dirà Frazier. Il campione mantiene il titolo e diventa il primo pugile a battere Ali durante la sua carriera da professionista. Dopo il match, come ha raccontato Mark Kram, Frazier cammina avanti e indietro per lo spogliatoio con le lacrime agli occhi e gridando: «Portatemelo qui, voglio che strisci ai miei piedi! Lo ha promesso!». Subito dopo Frazier viene ricoverato in ospedale per affaticamento e pressione alta. I dottori lo tengono sotto osservazione, temono che possa entrare in coma. La sua è una vittoria amara, che lo ha quasi ucciso e non è riuscita a fargli guadagnare il rispetto che voleva. Ali, invece, è andato al tappeto, ma rialzandosi un istante dopo è diventato una figura eroica, il simbolo dell’uomo nero che non si piega e non rimane a terra qualunque cosa gli succeda.

Nel frattempo il caso di Ali accusato di renitenza alla leva è arrivato alla Corte Suprema e, in caso di condanna, lo aspettano fino a cinque anni di carcere. Nell’aprile del 1971 viene dichiarato colpevole, ma a un passo dall’incarcerazione due cancellieri convincono il magistrato a leggere l’autobiografia di Malcom X e il verdetto viene ribaltato. Ali viene assolto. Alla fine, sono state le parole del suo ex amico Malcolm X a salvarlo.

Per Ali la battaglia ricomincia e l’obiettivo è uno solo: riconquistare il titolo. Quasi tutto però è contro di lui: ha 30 anni e c’è una nuova generazione di pugili molto forti, che ha preso ispirazione proprio da lui. Per continuare a quel livello, Ali deve sviluppare nuove strategie difensive. Il suo primo obiettivo è battere Frazier «perché è l’unico che mi ha sconfitto». L’incontro si svolge ancora al Madison Square Garden nel gennaio del 1974, ma non è più il match del secolo perché Frazier non è più campione del mondo. Ha perso il titolo un anno prima in Giamaica contro George Foreman. Quando si incontrano sul ring, sia Ali che Frazier sanno di dover combattere solo per poter sfidare Foreman. Vince Ali al 12esimo round per verdetto unanime. Poi tocca a Foreman, ma affrontarlo sembra una vera follia. Foreman ha 25 anni, 7 meno di Ali, è cresciuto nel ghetto di Fifth Ward a Houston e per sua stessa ammissione è stato un rapinatore, un ladro d’auto e uno scippatore, prima di entrare nei Job Corps e scoprire di avere un talento per la boxe. Nel 1968 ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Città del Messico e nel 1974 è migliorato ancora diventando una specie di corazzata: in Giamaica ha mandato Frazier al tappeto sei volte nei primi due round, di cui due volte nel giro di 20 secondi. Per tutti è il campione dei pesi massimi più terrificante che si sia mai visto. Il New York Times scrive che probabilmente Ali perderà al primo round. L’incontro Foreman-Ali, fissato il 25 settembre 1974 a Kinshasa, Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del Congo, ndr), segna anche lo spettacolare esordio di Don King, intenzionato a diventare il primo promoter nero nel mondo della boxe. Grazie a un accordo con il governo dello Zaire, che accetta di pagare i due pugili 5 milioni di dollari, King riesce a portare in Africa per la prima volta un incontro valido per il titolo. Lo Zaire è governato dal Generale Mobutu Sese Seko, autoproclamatosi Padre della Patria, che ha preso i soldi per finanziare il match direttamente dalle casse dello Stato. Ali capisce subito l’importanza simbolica dell’evento, dà all’incontro il nome di Rumble in the Jungle (rissa nella giungla, ndr) e lo rivendica per sé: «Non combatto per me», dice, «combatto per tutta la gente di colore che non ha un futuro».

Dopo settimane di rinvii, il match si svolge il 30 ottobre 1974 nello Stade du 20 Mai davanti a 62mila persone a un orario assurdo, le 4 del mattino, per accontentare gli spettatori americani. Pacheco ricorda che prima dell’incontro nello spogliatoio di Ali il terrore era palpabile: «La domanda era: quanto male gli farà Foreman?». L’unico che non sembra preoccupato è proprio Ali: «Vedo davanti a me lo sguardo truce di Sonny Liston 10 anni fa a Miami Beach», dice ai suoi allenatori. Anche nello spogliatoio di Foreman, secondo quanto ha scritto Norman Mailer, si respira la paura, ma è diversa: «Sinceramente noi pregavano perché Foreman non uccidesse Ali», ha raccontato uno dei suoi secondi, l’ex pugile Archie Moore, «il rischio c’era». Alla fine ha ragione Ali: prende il controllo nei primi momenti del match, saltella girando intorno a Foreman e sferrando colpi misti che hanno l’effetto di disturbarlo. Foreman è un pugile in grado di colpire molto forte, ma ha un problema: troppo spesso colpisce a vuoto. Inoltre la guardia di Ali è diventata impenetrabile: tiene braccia e guantoni incollati al volto, formando una barriera che Foreman non riesce a superare e da cui lui esce all’improvviso sparando pugni che fanno male.

Nel secondo round, Ali comincia a usare la strategia che userà per tutto il match: si appoggia alle corde, rese più elastiche dal caldo afoso dello Zaire. È l’ultimo posto in cui un pugile vorrebbe stare: «Continuavamo a gridargli: “Esci dalle corde!”», ha detto Pacheco. Nel racconto di Ali, «George non ha fatto altro che attaccare, è l’unica cosa che sa fare». È una tattica che sfianca Foreman e permette ad Ali di prendere fiato. Alla fine del settimo round Foreman ha perso gran parte della sua potenza. Il sole sta quasi per sorgere. «Mi sto stancando», dice Ali al suo allenatore Angelo Dundee, «Forse dovrei solo mandarlo al tappeto». Dundee risponde: «Perché non lo fai? Potrebbe essere una soluzione». Mancano 30 secondi alla fine dell’ottavo round, quando Foreman sferra un colpo con il braccio teso contro Ali che sta appoggiato alle corde. Poi Foreman inciampa leggermente, scivola verso destra e si scambia di posizione con Ali, che lo prende in pieno con un destro alla testa. Foreman cerca di continuare a colpire Ali, ma viene raggiunto da una combinazione di colpi velocissima che lo fa girare come un ballerino ubriaco. Alla fine cade in avanti, lentamente, a peso morto, come se fosse un gigante abbattuto, incosciente. È il momento più splendido nella carriera di Muhammad Ali: «Ve l’avevo detto, sono il più grande di tutti. Nessuno mi potrà mai battere, non dite mai più che qualcuno mi può sconfiggere. Non sottovalutatemi mai più, almeno fino a quando non avrò 50 anni. Allora forse potrete». Anni dopo, nel documentario Facing Ali, Foreman ha dichiarato: «Probabilmente il pugno migliore non è mai stato sferrato. Mentre stavo andando giù, inciampavo e tentavo di tenermi in piedi, Muhammad Ali mi guardava. Normalmente un pugile finisce l’avversario, io lo avrei fatto. Lui era pronto con un destro, ma non lo ha fatto. È questo secondo me che rende Ali il più grande pugile che abbia mai affrontato».

Sette anni dopo essere stato privato ingiustamente del suo titolo, Muhammad Ali è di nuovo campione del mondo: «Alla gente piace vedere i miracoli, piace vedere gli sfavoriti che vincono. Alla gente piace essere presenti quando si fa la storia». Ali pensava di ritirarsi dopo il combattimento con Foreman, ma prima difende il titolo altre tre volte. Quando un giornalista gli chiede: «Che ne pensi di Joe Frazier?», risponde: «Frazier? Non vedo l’ora». Nessuno si aspetta un grande incontro quando i due pugili si ritrovano faccia a faccia sul ring per la terza volta l’1 ottobre 1975 a Manila, nelle Filippine, ma la rivalità tra i due è più accesa che mai. Dentro l’Araneta Coliseum la temperatura sfiora i 38°. Ali subisce come mai nella sua vita: Frazier lo martella al corpo, round dopo round, con colpi sferrati apposta per distruggergli i reni e colpirlo al cuore. Ali ha raccontato al giornalista Jerry Izenberg che quel combattimento è stato «l’esperienza più vicina alla morte».
Ma Ali ha già dimostrato di essere in grado di incredibili recuperi: nel 13esimo round colpisce Frazier con un destro che gli fa volare il paradenti fino alla quinta fila del pubblico, proprio dove sono seduti i giornalisti. Dopo il 14esimo round l’allenatore di Frazier, Eddie Futch, vuole gettare la spugna. Non vuole vedere il suo pugile morire o rimanere segnato per la vita. «No Ed, non fermare questo cazzo di incontro!», gli intima Frazier. Anche Ali è pronto a mollare, e dice a Dundee la stessa cosa che aveva detto nel momento peggiore del primo incontro con Sonny Liston: «Toglimi i guanti». Un amico di Frazier seduto vicino all’angolo di Ali lo sente e tenta di avvertire Frazier, ma è troppo tardi. Futch ferma il match. Ali resta quasi imbambolato davanti alla vittoria. Si alza dall’angolo, solleva il braccio destro e poi collassa a terra. «Frazier ha mollato un attimo prima che lo facessi io», dirà anni dopo Ali: «È il miglior pugile di tutti i tempi, insieme a me. Manila è stato il più grande incontro della mia vita, ma non lo rifarei mai. Non voglio rivedere l’inferno».


Ali fa altri 10 incontri; alcuni leggendari, molti strazianti. Nel febbraio del 1978 perde il titolo contro Leon Spinks, un pugile appena diventato professionista. La notte dopo il match Ali viene visto correre in strada alle due del mattino gridando: «Devo riprendermi il titolo! Devo riaverlo!».

Sei mesi dopo batte Spinks nella rivincita e diventa l’unico pugile a ottenere per tre volte il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. Ma comincia ad avere sintomi preoccupanti. Il suo modo di parlare diventa sempre più incomprensibile: «Dicono che farfuglio, ma non è vero. Parlo da nero», dice lui. Si ritira una prima volta nel 1979, ma dopo pochi mesi si sta già allenando per un match contro il nuovo campione, Larry Holmes. Il 2 ottobre 1980 sul ring del Caesar’s Palace di Las Vegas, Ali non riesce a prendere il sopravvento, ma non molla. Holmes continua a colpire un uomo che vuole morire in piedi, combattendo. Angelo Dundee ferma l’incontro al decimo round. Ali fa un ultimo incontro l’11 dicembre 1981 contro Trevor Berbick e perde ai punti. Dopo 21 anni da professionista, è l’ultima volta che mette piede sul ring. Non gli sarebbe comunque più permesso. I segni della malattia sono ormai troppo evidenti.

Gli viene diagnosticato il morbo di Parkinson. Le sue facoltà mentali rimangono invariate, vivaci come sempre, ma il corpo lo abbandona. Cammina sempre più lentamente e con il passare del tempo smette di apparire in pubblico. È un terribile paradosso: durante tutta la sua carriera di pugile Muhammad Ali ha ripetuto con orgoglio di essere capace di schivare tutti i colpi alla testa e di non essere mai stato ferito al volto. Però ha permesso ai suoi avversari di colpirlo al corpo, ai fianchi e alle braccia, sfidando il vecchio detto della boxe: «Se uccidi il corpo, la testa morirà». Secondo Pacheco sono stati probabilmente questi colpi a danneggiare il suo sistema nervoso.

Ormai è una figura eroica. Il presidente Gerald Ford lo invita alla Casa Bianca e nel 1980 Jimmy Carter lo manda in missione diplomatica in diversi Paesi africani per conquistare il loro appoggio al boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980. Nel ’90 Ali incontra Saddam Hussein per negoziare il rilascio di 15 ostaggi americani. Va anche in Sudafrica dopo la liberazione di Nelson Mandela, partecipa a una spedizione di materiale medico a Cuba e va in missione umanitaria in Afghanistan e Corea del Nord. Nel 2005, con la quarta moglie Yolanda Williams, apre a Louisville il Muhammad Ali Center, per il supporto alle comunità locali, e fonda il Muhammad Ali Parkinson Center al Barrow Neurological Institute di Phoenix.

Il tempo ha trasformato Ali in un simbolo di resistenza, riconciliazione, lotta e trionfo. Dopo l’11 settembre, in occasione del concerto benefico America: A Tribute to Heroes a New York, parla in pubblico per la prima volta dopo anni: «Credo che la gente debba sapere la verità sull’Islam», dice in preda ai tremiti, «la gente mi conosce per essere un uomo che ha sempre rappresentato la verità. E non sarei qui oggi a parlare a nome dell’Islam se fosse davvero come i terroristi vogliono farlo sembrare». Nel dicembre del 2015 ha parlato ancora: «Non esiste niente di islamico nell’uccidere persone innocenti a Parigi, San Bernardino o da qualsiasi parte nel mondo. I veri musulmani sanno che la violenza dei jihadisti che si fanno chiamare islamici è un attacco contro la nostra stessa religione». Ha anche espresso il suo disappunto nei confronti del candidato repubblicano Donald Trump quando ha proposto di proibire agli immigrati e ai visitatori provenienti da Paesi islamici di entrare negli Usa: «Non sono conosciuto per essere uno politicamente corretto, ma credo che i nostri leader debbano usare la loro posizione per rendere più comprensibile a tutti la religione islamica e chiarire che questi assassini, che sono stati fuorviati da idee sbagliate, stanno rovinando la considerazione dell’Islam da parte della gente».

Ali ha preteso il rispetto e se lo è assicurato. Nessuno glielo ha mai potuto negare. Intanto, mentre faceva tutto questo, ha trasformato il concetto stesso di orgoglio, di coraggio e di riconoscimento dei propri diritti, facendo vedere nuove possibilità alla gente di colore, nel mondo dello sport e non solo. «Uno dei motivi per cui il movimento per i diritti civili è andato avanti», ha detto il giornalista televisivo Bryant Gumbel, «è che gli afroamericani sono riusciti a superare le loro paure. E credo che per molti di loro l’esempio sia stato Muhammad Ali. Lui si è semplicemente rifiutato di avere paura». Questo coraggio è andato oltre le incredibili imprese e la punizione che ha trovato sul ring. Per metà della sua esistenza è stato segnato dal Parkinson, una malattia che ha dominato la sua vita molto più a lungo di quanto lo abbiano fatto la forza e l’abilità. «So perché mi è successo questo», ha detto Ali a David Remnick, «Dio ha voluto ricordarmi che sono un uomo come tutti gli altri. Lo ha voluto ricordare a tutti. Questa è la lezione che potete imparare da me».

Iscriviti