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Colin Kaepernick, una doverosa strumentalizzazione

Nike sceglie come testimonial il quarterback, autore di una clamorosa protesta durante l'inno Usa. Una volta di più, la campagna divide il Paese, tra chi esalta l'operazione e chi grida al boicottaggio. Ed è giusto così, in epoca di "love brand" e dell'eterno conflitto in politica

Kaepernick (al centro), accompagnato da due compagni durante la sua protesta

«Oggi la pubblicità racconta molto più che in passato le tensioni, prende posizione. I brand possono diventare fonte d’ispirazione, mentre la politica e le istituzioni perdono consenso. Ti dicono “noi siamo così, puoi diventare uno dei nostri”. Questo è il tempo dei love brand, capaci di farti identificare in loro. Non c’è più grande differenza tra Obama e un marchio di moda». Lo raccontava sul numero di luglio di RS Bruno Bertelli, direttore creativo di Pubblicis, uno dei pubblicitari italiani più apprezzati nel mondo.

Le sue parole appaiono quanto mai indicate per inquadrare la mossa di Nike, che ha scelto Colin Kaepernick come testimonial – assieme a Serena Williams, LeBron James, Lacey Baker, Shaquem Griffin e Odell Beckham Jr., da quanto si apprende  – della campagna con cui il colosso dello sportswear festeggia il 30° anniversario dello slogan Just Do It. La pubblicità è stata svelata nelle scorse ore, a due giorni dal via della nuova stagione Nfl: si vede un primissimo piano di Kaepernick – che secondo Espn è sempre rimasto sotto contratto con Nike, nonostante le polemiche di questi anni  e la scritta “Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto”.

Kaepernick, 30 anni, è stato uno dei personaggi sportivi più discussi degli ultimi anni. Nel 2013 conquistò il Super Bowl, la finalissima del campionato di football americano, con i San Francisco 49ers, persa contro i Ravens. Poi qualche stagione di alti e bassi, fino a che le sue performance in campo sono state del tutto oscurate dalla decisione, due anni fa, di rimanere in ginocchio durante l’esecuzione dell’inno americano, liturgia che precede ogni match professionistico al di là dell’oceano. Le sue parole furono parecchio esplicite: “Non c’è da mostrare orgoglio per la bandiera di un paese che opprime la gente di colore e le minoranze. Per me questa presa di posizione è ben più importante del football e sarei un egoista se mi girassi dall’altra parte. Ci sono corpi per le strade e gente che non paga le conseguenze per aver assassinato qualcuno”, disse Kaep.

Già nei mesi precedenti alcuni campioni dello sport a stelle e strisce si erano schierate, come LeBron James, Derrick Rose e Kobe Bryant, che indossarono durante gli allenamenti pre-gara delle t-shirt con scritto I can’t breathe, per ricordare la morte di Eric Garner, giovane afroamericano ucciso dalla polizia a Staten Island. Poi l’elezione di Donald Trump, poche settimane dopo il clamoroso inginocchiamento di Kaepernick, e un ulteriore inasprimento del rapporto tra le superstar di colore e il potere.

La protesta di Kaepernick, seguito da altri colleghi, fece scandalo, e divise gli Stati Uniti. Tanti esaltarono il suo gesto, e espresso solidarietà nei confronti dell’atleta dei 49ers. Il Time lo mise in copertina, la sua chioma afro divenne presto un’icona. Le critiche nei suoi confronti, d’altro canto, furono violentissime. La Nfl varò nuove regole per impedire simili rimostranze da parte dei suoi tesserati. “Quando uno di questi giocatori manca di rispetto alla nostra bandiera, vorrei vedere il proprietario di una franchigia alzarsi in piedi e cacciare questo figlio di puttana dal campo, licenziarlo”, scrisse in un tweet Trump. Qualcuno, sostengono i maligni, deve averlo preso sul serio. Perché l’anno scorso Kaepernick, dopo sei stagioni NFL, rimaneva senza squadra, accusando il sistema di averlo escluso per motivi politici.

Nessuna franchigia si è fatta avanti nemmeno in estate, mentre ha colto l’occasione Nike. L’annuncio della nuova campagna, postato dallo Kaepernick, ha stappato una (prevedibilissima) battaglia campale sui social, con record di condivisioni per l’hashtag #KaeperNike. Tanti hanno celebrato il coraggio di Nike, che così si schiera in maniera inequivocabile nel fronte anti-Trump. “Pensiamo che Colin sia uno degli atleti che ispirano di più in questa generazione e che ha rafforzato il ruolo dello sport nell’aiutare il mondo a progredire” ha detto Gino Fisanotti, numero due di Nike nel Paese. Anche questa volta, il rovescio della medaglia è stato un diluvio di polemiche e promesse di non comprare mai più le scarpe col baffo, o bruciare quelle ai propri piedi. Gli hashtag di riferimento, in questo caso, sono #JustBurnIt e #BoycottNike. In rete spopola l’immagine di un soldato americano – o la versione più macabra, con le lapidi di un cimitero di guerra – e scritte tipo “ecco cosa significa sacrificare tutto”.

Pochi atleti hanno detto finora la loro. Serena Williams, anche lei volto della campagna per i 30 anni di Just Do It, su Twitter si è detta “particolarmente fiera di essere parte della famiglia Nike in questo giorno”. Tra i colleghi della Nfl ha rotto gli indugi Douglas Middleton, che ha scritto solo “Leggenda”. “Rosa Parks avrebbe dovuto scegliere un agente migliore”, ha scritto il conduttore radiofonico Larry Elder. Un commento caustico, che sottolinea come in casi del generi sia impossibile non leggere una certa dose di strumentalizzazione di un episodio politicamente rilevante da parte di una grande azienda. Ma nell’America spezzata in due di The Donald, evidentemente, attorno a un tavolo di Beaverton, Oregon, la scelta deve essere apparsa giusta, forse indispensabile.

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