17 giugno 2006, finalmente ho un motivo per odiare Daniele De Rossi. 23 anni non ancora compiuti, è il più giovane della nazionale azzurra ai Mondiali tedeschi, eppure ha la fiducia di Marcello Lippi e parte titolare. Al minuto 28 della seconda partita del torneo stacca da terra per contrastare su un pallone alto l’americano Brian McBride e lo colpisce al volto. Gomitata, l’Italia rimane in 10 e fa una bella fatica a portare a casa il pareggio. De Rossi si becca quattro giornate di squalifica, salta praticamente tutti i Mondiali e torna per sbattere in rete uno dei rigori che fanno urlare come ossessi Bergomi e Caressa e con un filo di delay tutti noi.
Non sono mai stato convinto al 100 per cento che abbia fatto apposta a colpire l’avversario e in ogni caso tutto è bene quel che finisce bene, ma ora ho il mio pretesto e tanto mi basta. Da quel momento in poi Daniele De Rossi mi sarebbe stato sulle palle. Sono un hater decisamente amatoriale rispetto a certi professionisti che si trovano in rete o al bar, ma decido di riversare su di lui quell’antipatia del tutto cieca che molti di noi destinano agli sportivi. Ogni occasione è buona per innaffiare il mio pregiudizio: De Rossi che va in scivolata per fare male, De Rossi che è solo un coatto e non vuole il bene della Roma se no si ridurrebbe l’ingaggio (è stato a lungo il giocatore più pagato della Serie A), De Rossi che frequenta cattive compagnie e persino che è un fascista.
Perché ben prima che qualcuno le teorizzasse, Daniele è stato al centro di decine di fake news. Tutti hanno sempre saputo qualcosa che gli altri non dicevano su di lui, una roba tipo “tutti i crimini di Daniele De Rossi”, per usare il titolo di una popolare e nefasta pagina Facebook. Che poi, ora che ci penso bene, non mi è chiaro perché a Milano, città in cui vivo, qualcuno avrebbe dovuto sapere qualcosa dei legami di De Rossi con la criminalità romana, delle minacce ricevute lungo tutta la carriera e del pizzo pagato ai clan, dei suoi scazzi familiari e del busto di Mussolini che teneva in soggiorno (credo di aver sentito dire anche questa da qualche parte). E io a bermele di gusto, o meglio a fare finta di crederci per quel famoso discorso sui bias cognitivi.
Solo una volta che la coltre dell’hating si è diradata, è stato possibile mettere a fuoco che erano tutte cazzate. O meglio, che probabilmente erano cazzate e che comunque non lo saprò mai. E che in fondo, a parte l’eventualità del mascellone accanto alla libreria (quello sì che mi farebbe girare i coglioni), non me ne fregava nulla. Per fortuna con gli anni, oltre a svegliarsi tre volte a notte per andare in bagno, si diventa più lucidi.
Almeno, a me in questo caso è accaduto. Di pari passo deve essere accaduto qualcosa anche a De Rossi, che con il passare del tempo ha limato parecchie sue ruvidezze, favorendo la mia conversione sulla via di Trigoria. Già, perché ora De Rossi non me lo potete toccare. E se scrivo questo articolo è per dire che penso sia la cosa più bella capitata al calcio italiano negli ultimi dieci anni abbondanti. Lo pensavo già prima dell’estate, ne ho la certezza da quando l’ho visto con una maglietta del Boca Juniors tra le mani.
Non sono un nostalgico, un fanatico dei giocatori con i mullet o i calzettoni abbassati. Non penso che il calcio si sia estinto da quando non ci sono più i trequartisti con Lotta Continua sotto braccio e i genocidi degli ultras sugli spalti. Continuo a seguire il calcio moderno, sospendo il mio buon senso quando iniziano gli speciali calciomercato in tv e sono quasi disposto persino a tollerare (no, questo non è vero) ignobili truffe legalizzate come il Financial Fair Play e le plusvalenze gonfiate. Delle bandiere mi interessa il giusto e non mi dispiacerebbe che la mia squadra ogni tanto vincesse qualcosa per davvero, altro che narrazioni sul mio club che è differente.
Però la differenza tra De Rossi e gli altri la riconosco molto bene. L’ho vista per anni sotto forma di una gigantesca vena – anche un po’ preoccupante da un punto di vista medico –, che durante le partite gli appariva regolarmente lungo il collo oppure sulla tempia, mentre il volto gli si corrugava in una smorfia precristiana per via della fatica e della grinta. L’ho vista nei suoi inseguimenti di 40 metri ai giocatori avversari, prima di ribaltarlo per terra con un tackle potenzialmente letale e invece quasi sempre trionfante. Un tempo mi sbagliavo: quelli non erano tentati omicidi, erano forme d’arte contemporanea (non a caso poi iconizzate nel famoso tatuaggio che DDR ospita sul polpaccio).
Al di là della letteratura da quattro soldi sui gladiatori o gli undici leoni, in lui si è sempre potuto vedere qualcosa di diverso dagli altri nel modo di vivere l’esperienza della partita, che fosse in campo a dare mazzate o sugli spalti a farsi saltare le coronarie. Un approccio guerresco, un filo fanatico forse, ma sempre genuino. Come quando giocavamo da piccoli e senza un lavoro a partita iva a renderci prudenti nei contrasti, la sensazione è che per quei 90 minuti per De Rossi non esista null’altro che il campo. Lo chiedono tutti gli allenatori nei bei discorsi motivazionali, ma poi non è così, perché ognuno di noi in uno scompartimento della testa ha sempre qualcos’altro. Una famiglia a casa, la carriera e lo stipendio da preservare, i rapporti umani con compagni e avversari. Per De Rossi quel qualcos’altro non c’è, quindi col cazzo che toglie la gamba.
Il fatto, credo, è che questa non è mai stata una scelta, una dimostrazione di virilità o un modo per fare innamorare i tifosi. È che lui non conosce altro modo di stare al mondo. Perché per funzionare De Rossi ha sempre avuto bisogno di nutrirsi di passione, di sentire dei cuori pompare sangue. Come gli attori che non riescono a spiccicare due parole senza un pubblico o i grandi performer live. Magari ci sono professionisti più irreprensibili, ma pochi sono più belli da vedere in azione.
Quando è arrivata la notizia che la Roma non avrebbe rinnovato De Rossi sono stato combattuto. Da un lato ero dispiaciuto per l’epilogo tanto doloroso per un personaggio di cui tanto faticosamente avevo imparato ad invaghirmi, dall’altro ritengo sia perfettamente legittimo che una società faccia le sue scelte. Su modi e tempi della comunicazione non mi esprimo, perché sparerei solo cazzate. Colpisce, invece, che alla prima occasione e con tempi da record Daniele De Rossi, come una Carola Rackete con la barba bionda, sia tornato al centro di sospetti, voci e complotti vari.
Qua finisce che si ritira, ho pensato. Perché, nonostante le voci sulla Fiorentina o altre pretendenti, non ho creduto nemmeno per un secondo che De Rossi potesse giocare in una squadra italiana che non fosse la Roma. Come avrebbe fatto a incrociare di nuovo lo sguardo di quei tifosi con cui si è fomentato a vicenda per tre lustri e più? Quella sì, sarebbe stata un’ingiustizia. Però, se una cosa ti piace a certi livelli carnali, perché ci devi rinunciare? Se c’è una persona al mondo che non deve smettere di giocare a calcio è Daniele De Rossi.
Andare in Cina, o, poco meglio, negli Stati Uniti? E a fare cosa? Non che sia disonorevole la scelta di portare i propri talenti in quei campionati, però permetterete che è un’altra cosa. A ogni livello, da quello tecnico alla passione popolare. Daniele di soldi ne ha guadagnati parecchi, come si diceva, e non si sente un pensionato che può dire la sua solo tra i nuovi cafoni del pallone. Quindi non c’era alcun motivo per fare una simile scelta di “retroguardia”.
Poi è cominciata a emergere l’idea Boca. Avesse riguardato chiunque altro, sarebbe stata la classica “suggestione” estiva – per usare un termine che tanto piace agli esperti di calcio mercato – a cui non dare minimamente peso. Invece con De Rossi acquistava immediatamente di senso. L’immagine di Daniele che per anni a Trigoria si è guardato su YouTube i video della curva del Boca prima del Superclasico con il River o che chiedeva di continuo informazioni sul club ai colleghi argentini mi è sembrata magica. Per me alla fine ci va, ricordo di aver pensato.
Il resto è storia di queste ore, con l’annuncio ufficiale e l’approdo dell’ex romanista a Buenos Aires, città letteralmente fuori testa per il suo arrivo. La capisco: quando qualcuno ti sceglie è sempre bello, se lo fa uno che ascolta solo il cuore ancora di più. I prossimi otto mesi De Rossi li trascorrerà lì, in uno stadio incendiario e in un campionato dove sono più o meno tutti matti, in campo e sugli spalti. Per amor suo sopporterò anche la retorica sulla garra argentina e il futbol differente. Che a tratti, siamo sinceri, disturba un filo, ma ormai io e Daniele siamo maturi, sappiamo mettere un certo distacco tra noi e le cose. E quindi Vamos vamos los xeneizes, vamos a ganar!