Qualche settimana fa, ricevo una telefonata inaspettata: «Ghemon, Nike aprirà “Bastille”, il primo store interamente dedicato a Jordan brand; vorremmo che tu fossi presente e che provassi quest’ esperienza, sia come appassionato che come collezionista di sneakers». Quando si riceve questo genere di chiamate, non si sa mai se mantenere un contegno o lasciare che il bambino che è dentro di te esploda di gioia. Non era finita, però. la parte interessante della comunicazione: «Inoltre, ci sarà una prova su campo del nuovo materiale tecnico Jumpman e un clinic di tiro di una persona che credo ti sia molto a cuore: Ray Allen». La notizia concreta mi fa prorompere in un urlo. Voglio dire, ho sognato di essere un giocatore di pallacanestro per molto tempo nella mia adolescenza. Amo il basket e ci sono delle figure e dei riferimenti chiave sia nel gioco che in altre branche culturali per ogni “malato del gioco” che si rispetti. Space Jam, Chi Non Salta Bianco È, He Got Game, sono i film dietro a cui qualsiasi ex ragazzino della mia età ha perso interi pomeriggi.
Il giorno fatidico arriva, incontro a Linate e partenza per l’aereoporto Charles De Gaulle. Per me questo viaggio per Parigi ha una valenza doppia, visto che ho lasciato la capitale francese l’anno scorso, la sera prima degli attacchi terroristici al Bataclan. Andarci di nuovo è come poter ritrovare un amica in convalescenza dopo un incidente tanto brutto quanto misterioso. In compagnia di Elisa Guarnieri e di Davide Chinellato de La Gazzetta Dello Sport, con cui ho condiviso ormai tante storie e esperienze di basket e che ormai, dopo averli avuti nel pubblico ai miei concerti, considero dei veri amici, approdiamo in territorio transalpino. Il tempo di mangiare qualcosa e ci fiondiamo sul bus insieme ad altre facce conosciute tra i giornalisti europei (tra cui il mitico Rober Jerzy, un giornalista berlinese tifosissimo dei Knicks e dell’Inter). Ci cambiamo e iniziamo una seduta di allenamento e di tiri, disposti su tre campi paralleli all’interno di un hangar in periferia. Il mio tiro è arrugginito, non gioco da un po’ e non ho intenzione di farmi vedere da uno dei migliori di tutti i tempi in queste condizioni. Perciò ci lavoro. Un tiro entra a retina, uno non colpisce nemmeno il ferro. Sono incazzato. Devo dire che nello sport sono sempre stato estremamente competitivo. Apparentemente sono un buono ma voglio sempre vincere. Dopo aver rivisto i fondamentali per un po’ con i coach che ci parlavano in francese (capendo quindi meno di niente) e aver provato le XXXI, che nel design ricordano tanto la prima scarpa di Michael Jordan, la mitica 1 (l’icona una volta bannata dall’NBA perché non rispettava le linee guida sulle colorazioni dei team) ci mettiamo in semicerchio ad attendere pazientemente.
Dopo poco dalla porta della palestra entra finalmente lui, Ray Allen, anche conosciuto come Jesus Shuttlesworth (dal nome del suo personaggio nel film He Got Game). Cammina morbido, con la sua rasata a zero che quasi luccica. Ci troviamo di fronte a una star, un giocatore che ha vinto tanto ed è stato determinante veramente, che ora sta tra noi con enorme semplicità. Si pone prima come una persona e poi come un campione e questa è stata una delle sue grandi qualità di professionista in carriera. Inizia a parlarci della tecnica di tiro e del tocco alla palla, della mano che la sostiene – «Sempre coi polpastrelli, mai con il palmo» dice – e del puntare i piedi verso il canestro al momento in cui si riceve il passaggio per ridurre il tempo di intervento dell’avversario. Ci svela un po’ dei suoi segreti e questo posso contarlo tra uno dei maggiori privilegi che mi siano capitati nella vita. Mi rendo conto che sono davanti all’uomo che ha segnato più tiri da tre punti della storia del mio campionato preferito e mi sta spiegano come ci è riuscito. Non è incredibile? Lo è. Ci racconta di quella particolare volta in cui, all’All Star Game di Washington D.C. nel 2001, ha vinto il “Three Point Shoutout”. «Mentre tutti i miei avversari si concentravano sul riscaldamento dalla linea da tre, affaticando anche la mano, io mi ero concentrato sui tiri liberi, lavorando esclusivamente sul rilascio della mano, curando il movimento perché diventasse subito il più fluido possibile». Arriva il momento delle interviste. Divido i nostri dieci minuti a disposizione con lui con il mio collega Italiano, un inglese e gli spagnoli di Marca. In fondo sono un cantante e sto intervistando uno dei miei eroi – mi dico – potrei chiedere qualsiasi cosa di sport, ma mi giocherò la cosa a modo mio. Viene il mio momento, mi siedo davanti a lui. Ha 41 anni e si è ritirato dall’anno scorso ma è in una forma fisica smagliante e non stento a credere che ci fossero voci fondate su un suo possibile ritorno.
Una foto pubblicata da Ghemon (@ghemonofficial) in data:
La mia domanda lo fa sorridere: scegli tre momenti fondamentali della tua carriera e tre canzoni che ti hanno accompagnato o potrebbero esserne la colonna sonora. «Il primo momento che includerei», dice «è il mio periodo di carriera ai Milwaukee Bucks, i miei esordi i Nba, e la canzone è Purple Rain di Prince. I colori della nostra canotta erano appunto Purple & Green (viola e verde, ndr) e mi dicevano sempre che facevo “piovere tiri da tre”, quindi mi sembra la migliore scelta.
La seconda è Super Star di Lupe Fiasco (inizia a canticchiarla con mia sorpresa). La ascoltavo molto durante i playoff del 2008 quando abbiamo vinto il titolo con i Boston Celtics. La terza direi che è All Star degli Smash Mouth, per il periodo di Miami. In ogni caso tre pezzi che mi davano motivazione. Sai, la stagione dura tantissimo e hai bisogno di musica che ti tenga motivato lungo l’arco dell’anno». Ci fanno uscire dalla stanza e Ray ci ringrazia e saluta singolarmente. Posso ritenermi più che soddisfatto e mi aspetta ancora l’apertura dello store Jordan, dove da collezionista mi metterò poi debitamente in fila per acquistare qualche paio raro, che magari è introvabile e verrà rimesso fuori per questa grande occasione. Posso ritenermi felice. Sono momenti in cui confronti parti di te con sistemi e personaggi di fama mondiale e davanti alla grandezza ti ispiri a fare di più. Sono cose, queste, per cui amo dire: GRAZIE DAVVERO.