L’esordio è stato da romanzo, con una rimonta da -20 e il canestro della vittoria all’ultimo secondo. La seconda è andata peggio, e la sua Dinamo ha dovuto arrendersi a Brindisi, che questa sera si giocherà la finale della Coppa Italia del nostro basket contro Cremona. Va sempre a finire così con Gianmarco Pozzecco: mai una volta che le cose si facciano banali con lui.
Nonostante tutto è stato positivo il suo ritorno dopo quattro anni su una panchina di serie A, chiamato da Sassari, una delle big del nostro campionato negli ultimi anni, a sostituire in corso d’opera Vincenzino Esposito. La pallacanestro italiana è un lungodegente, cui non mancano i tifosi e la passione popolare, ma i soldi e, nella maggior parte dei casi, la progettualità. Così negli anni sono sparite, fallite o sprofondate realtà importanti come Siena, Bologna sponda Fortitudo, Treviso, Roma, Reggio Calabria e tante altre.
E così i malati di palla a spicchi non possono fare a meno di provare un po’ di nostalgia per i tempi d’oro in cui il Poz non era costretto dentro una giacca e una cravatta, ma, capelli rossi e cerotto al naso, slalomeggiava sui parquet, fino a vincere un titolo con Varese e l’argento olimpico con una nazionale che tutti hanno ancora nel cuore, quella del 2004. Poi la scelta di diventare allenatore, lui che in campo era sempre stato il più indisciplinato, fino ad ammettere di non aver difeso per anni “perché lo faceva già Meneghin” o di “guardare le fighe” invece che ascoltare l’allenatore durante i time out.
In un basket sempre più derelitto, Pozzecco non ha mai smesso di divertirsi. E di metterci il cuore come quando sudava in canotta, andando a ripercorrere a ritroso la mappa che aveva già tracciato da giocatore: Capo d’Orlando, Varese, Bologna. E ora Sassari, dove sarà un piacere vederlo impegnarsi a rimanere serio. Di certo il suo ritorno è importante per tutta la pallacanestro italiana, perché personaggi così non ce ne sono più stati e chissà quando ce ne saranno altri. Leggere per credere.
Come va coach?
Un po’ stanco, perché ho fatto da Formentera a Sassari a nuoto. Però non so quanto ci ho messo, perché mi è caduto l’orologio in acqua.
Era uno di quelli impermeabili?
No, una swatch. L’avevo pagato 50mila lire.
Ti manca già Formentera?
No, per nulla. La gente ha il falso mito della vita là, mica è sempre estate. Che poi anche d’estate io mi faccio i cazzi miei a casa mia. Il resto dell’anno ci sono 13mila anime sparse per l’isola, e la vita è totalmente diversa da come si immagina. I locali sono tutti chiusi, per chi si immagina che io faccio serate sette giorni a settimana. Però sto da Dio.
Fatto sta che sei sempre su un’isola. Formentera, la Sicilia e Capo d’Orlando (dove ha chiuso la carriera da giocatore e iniziato quella da allenatore, ndr) e ora la Sardegna.
Be’ credo si sia capito che preferisco il mare alla montagna… Sono convinto che i posti un po’ uno se li scelga, non sia mai del tutto una casualità dove uno finisca a vivere. Di certo con gli isolani, io che sono un triestino nato a Gorizia, sento molte affinità, è come se ci capissimo in maniera più immediata.
La geografia condiziona il carattere delle persone?
Sono convinto di sì. Ho avuto la fortuna di vivere in tanti posti e di girare il mondo, ma non da turista, che è tutta un’altra cosa. Il mare e il sole mi hanno sempre fatto stare bene, che non vuole dire che quelli che vivono dove c’è la nebbia o dove nevica siano stronzi, eh. Ma che il contesto in cui vivi influisca su chi sei tu è fuori di dubbio.
Non sei uno da metropoli, parrebbe.
Proprio no, infatti a Capo d’Orlando sono stato benissimo. Mi piace sentire la presenza di una comunità attorno a me, come di una famiglia allargata. Malcolm Gladwell (giornalista e saggista canadese, ndr), di cui sono un grande fan, racconta nei suoi scritti dello strano caso di un piccolo Comune italiano chiamato Roseto, che però non è quello degli Abruzzi (ma Roseto Valfortore, in provincia di Foggia, ndr), da cui alcune persone partirono per andare in Pennsylvania a lavorare, da lì partì un esodo di conterranei e nell’arco di un paio d’anni ricostruirono il loro paesino negli Stati Uniti. Poco dopo uno studio dimostrò che lì le malattie cardiache erano quasi inesistenti. Questo, stabilirono gli scienziati, perché la loro vita si svolgeva tutta all’interno di reti familiari e di solidarietà. E questo aveva influito anche dal punto di vista della salute. Io la vivo proprio così, e siccome faccio un lavoro stressante voglio vivere in posti dove posso stare bene, in pace.
Già che ci siamo, da lettore accanito quale sei consigliaci un volume che negli ultimi tempi ti ha conquistato.
L’avversario di Emmanuel Carrère. Una storia vera, e agghiacciante, di un uomo che vive nella bugia costante. Un libro davvero potente. Quasi come Bar Sport di Stefano Benni, che rimane il mio cult.
Dopo Varese e Fortitudo, sei finito ad allenare una squadra in cui non hai mai giocato. Senti un filo meno di pressione addosso?
Sì. Perché qua mi gioco presente e futuro, come sempre in questo lavoro, ma almeno non mi gioco il passato. A Varese e a Bologna sapevo che rischiavo in qualche modo di compromettere, qualora le cose fossero andate male – il ricordo che avevo lasciato da giocatore. E la cosa mi creava enorme ansia. Qua non esiste un passato comune, per cui parto da zero a zero.
Da allenatore hai avuto fin qua e alti e bassi. Cosa devi migliorare?
L’aspetto emotivo, riuscire a non farle il pirla in campo durante le partite.
Perché ti si “spegne la luce ogni tanto” (celebre l’episodio della camicia strappata da coach di Varese, ndr)?
Non lo so. Hai detto bene, si spegne la luce. Quindi non so dire perché succede, o cosa mi passa in testa in quel momento. Magari lo sapessi.
Hai promesso di non fare cazzate questa volta. Ci credi davvero?
Io non ho promesso di farcela, ma prometto di provarci ardentemente. Non lo dico per fare contenti gli altri, ma perché non posso più convivere con il mio mister Hyde se voglio crescere in questo lavoro. E poi mi sono stancato di vivere le cose così, sono io il primo a soffrire come un cane quando si scatena l’Hulk.
Come riesci a fare convivere la passione estrema e la leggerezza, anche il cazzeggio, che metti nelle cose che fai?
Io ho giocato da dilettante fino a 20 anni, a 17 avevo smesso col basket e giocavo a calcio. Ero un po’ … come cazzo si chiama il calciatore del Leicester? Ah, sì, Vardy. Per tutta la carriera mi è rimasta dentro una visione ludica dello sport, anche se poi le cose si sono evolute e non poco. Mi sento fortunato: se non avessi continuato a divertirmi, non sarei riuscito a fare le cose che ho fatto.
Al basket italiano, malato ormai cronico, manca più leggerezza o più passione?
Programmazione, non pensare sempre e solo a quanti punti hai fatto nel quarto quarto dell’ultima partita di campionato. La questione è culturale, troppe persone in questo mondo vanno e vengono e cercano solo un’esposizione effimera per poi ricominciare da un’altra parte. Se invece ci tieni davvero e sai che nella vita non potrai fare null’altro, perché il basket è il tuo posto nel mondo, quello che succede nel breve periodo conta poco. Purtroppo non sono tanti ad avere questa lungimiranza, e molti proprietari di club guardano solo ai risultati. Ma nello sport si vince e si perde, succedeva anche a Michael Jordan.
A volte pare che abbia molta più passione per il basket la gente – che resiste a fallimenti di società e progetti farlocchi di ogni tipo – che certi addetti ai lavori.
La gente ha una passione infinita, a volte non riesci neanche a cogliere quanto sia profonda. E spesso riceve in cambio poco. Io sono davvero contento di essere arrivato a Sassari, che è una mosca bianca, una società che programma, è presente sul territorio, crea eventi e punta sul merchandising sul modello Nba. Una società vera e moderna.
Chi ti fa divertire nel basket di oggi?
Obradovic, l’allenatore del Fenerbahce. Per quanto è bravo, e perché è una persona splendida.
E perché può permettersi di impazzire (le sue sfuriate ai giocatori sono celebri, ndr) e nessuno gli dice nulla.
Può farlo perché è una persona onesta, e tutti sanno che se impazzisce c’è un motivo. Ti racconto un aneddoto. Quando ero in Croazia (al Cedevita Zagabria, ndr) e abbiamo ospitato il Fener in Eurolega, abbiamo offerto la cena a lui e al suo staff, come si fa in questi casi. Alla fine della serata, senza che nessuno tranne me se ne accorgesse, lui – per altro serbo – ha dato una mancia di 200 euro ai camerieri. Fosse stato italiano, probabilmente, si alzava in piedi sul tavolo e urlava “toh, tieni”.