Giorgio Tavecchio risponde al telefono all’ultimo squillo. Ho calcolato male il fuso orario californiano, e anticipato (di non poco) la chiamata. Eppure non fa una piega. Nato a Milano nel 1990, è cresciuto negli Stati Uniti, dove, con il fratello, ha seguito la famiglia da bambino. Dodici mesi fa, dopo anni di provini e infiniti allenamenti senza mai vedere il campo in un match ufficiale, realizzava il suo sogno di esordire in una partita del campionato NFL (l’undicesimo italiano in assoluto a riuscirci, ndr), mandando a segno anche due calci piazzati (il primo connazionale ad andare a referto in un match ufficiale dal 1987, ndr). Gli Stati Uniti scoprivano Giorgio Tavecchio, rarissimo esempio di kicker (chi esegue i calci piazzati nel football americano, ndr) mancino e autentico extraterrestre nel mondo del miliardario sport professionistico americano, uno che gira con un telefono a conchiglia, fa volontariato nelle mense e va pazzo per le parole crociate.
Praticamente al via della nuova stagione, nonostante le ottime performance dello scorso anno, Giorgio è stato tagliato dagli Oakland Raiders, che hanno fatto altre scelte nel suo ruolo. Ha provato con gli Atlanta Falcons, dove ha fatto un’ottima impressione, senza però strappare un contratto. E così, ora che sembrava aver raggiunto il traguardo per cui ha lottato tutta la vita, si ritrova di nuovo senza squadra. Costretto a ricominciare da capo.
Anzitutto scusa per l’orario. Dove sei in questo momento?
Non preoccuparti, ero già sveglio. Sono a casa mia, vivo in un paese che si chiama Moraga, nella Bay Area, a mezz’ora circa da San Francisco. Sto qua dal 2005, ormai ho messo le radici. Diciamo che ho girato parecchio nella mia vita, sin da quando ero bambino: i primi quattro anni a Milano, poi il Connecticut, Roma e infine la California. I miei si sono trasferiti qui perché era una bella zona, con un clima mediterraneo, delle buone scuole e le migliori opportunità per farmi giocare a calcio. Fu un’ottima scelta, si sta una meraviglia qua.
Sei la persona più famosa di Moraga ora?
In effetti oggi mi conoscono in tanti nel paese. Ma ti vieto di definirmi vip.
Cosa è cambiato nella tua vita rispetto all’anno scorso?
Tutto e nulla allo stesso tempo, è una specie di paradosso. Di certo godo di un po’ di popolarità in più, e il mio conto corrente ne ha beneficiato. Ma, giocando nei Raiders, il cui campo è a pochi chilometri da casa mia, ho sempre fatto avanti e indietro tra il centro sportivo e Moraga. Quindi, a parte le trasferte, sono sempre rimasto qua.
Cosa stai combinando oggi?
Mi alleno tutti i giorni, in campo e palestra, nella speranza che qualcuno mi chiami. E rifletto un po’ sulla mia vita e sul mio futuro.
Spiegaci meglio.
Sto valutando se cercarmi un lavoro per i prossimi mesi, magari iniziare ad allenare nei licei oppure aprire una attività mia fuori dal football, sfruttando, ad esempio, la mia passione per la cucina italiana.
E rimetterti a studiare?
Di quello sono un po’ stufo, devo essere sincero. Ho frequentato Berkeley, mi sono laureato in economia e commercio. Ma in realtà le mie esperienze lavorative, oltre al football, sono in ambito tech, che qua va per la maggiore, come potrai immaginare. Negli scorsi anni ho lavorato per un’azienda del territorio, che mi ha sempre permesso di essere flessibile e dato la libertà di prendere in qualunque momento un volo e andare, chessò, a New York, per fare un provino per una squadra. Purtroppo l’Nfl è un po’ così: per mesi non ti chiama nessuno, poi, se uno si fa vivo, cinque minuti dopo devi essere a bordo di un aereo.
Ti ferisce il nuovo stop alla tua carriera?
Diciamo che la mia mente è divisa in due. Da un lato sto male e sono deluso, mi chiedo come sia possibile rimanere senza squadra dopo l’ottima stagione passata. Dall’altro so che devo andare avanti, trovare la passione per rimettersi in moto ogni mattina. Voglio vivere le difficoltà come un’opportunità: la vita, e non solo il football, è piena di ostacoli.
Qual è il ricordo più bello della scorsa stagione?
La prima da titolare è stata un’esperienza surreale. Non riuscivo a rendermi conto di avercela fatta, credo di essere stato in totale confusione per sette o otto settimane. Il momento in cui ho davvero realizzato cosa stesse succedendo è stato il volo di ritorno da Miami, dove avevo giocato bene e avevamo vinto: la settimana dopo eravamo di riposo, e così ho fatto un respiro molto profondo e mi sono rilassato un po’. Avevo appena capito di aver realizzato quello che era stato il mio obiettivo degli ultimi sei anni, diventare un giocatore Nfl.
Per anni, dopo il college, sei sempre stato nel giro delle “seconde squadre” NFl, senza mai trovare un contratto da titolare. Cosa hanno rappresentato quegli anni per te?
Sono stati sei anni di amore, passione, lacrime, sofferenza, gioia. Un turnover continuo di emozioni, che ho vissuto in maniera molto personale, intima. Sono grato del fatto di non essermi mai sentito solo, né negli Stati Uniti, né quando venivo in Italia.
Durante la stagione leggevi cosa si scriveva di te da questa parte dell’oceano?
In quelle settimane mi sono concentrato su match e allenamenti: ho dedicato il 100 per 100 di me alle cose di campo. Mio zio e mia nonna in Italia, però, mi avvertivano quando veniva scritto qualcosa su di me. La cosa che più mi preme è che gli articoli che mi riguardano riescano a raccontare ciò che realmente sono, i valori che mi muovono. Vorrei che passasse la dimensione più vera di me.
Perché non sei stato riconfermato, secondo te?
Dopo la scorsa stagione i Raiders hanno licenziato il capo allenatore e cambiato buona parte dello staff, e io non ero più nei loro piani. Questo è un business difficile, l’ho sempre saputo. Agosto, quando ho avuto la notizia del taglio, è stato un mese difficile, che mi ha sfidato molto. Come detto, cerco di rimanere concentrato sul mio percorso di crescita e non lasciarmi abbattere.
Con i Falcons come è andata?
Mi hanno chiamato per un provino due giorni dopo il taglio con i Raiders. Sono stato bene, ho trovato davvero delle good vibes. Sono grato per l’opportunità di conoscere il loro spogliatoio e giocare un po’ con loro.
Cosa dobbiamo “tifare” per rivederti campo?
Non dico di certo per l’infortunio di un altro kicker, perché c’è una sorta di fratellanza tra noi del ruolo. Anche se mia mamma la vede in maniera un po’ diversa (ride). Bisognerebbe che una squadra sentisse l’esigenza di cambiare il kicker a stagione in corso, e pensasse a me. Per ora non c’è nulla di concreto, come detto questo è un business molto incerto. Io rimango positivo, e allenato.
Essere mancino ti ha penalizzato?
Secondo me si. Il compagno che mi tiene la palla a terra prima del calcio, l’holder, deve imparare a rapportarsi con il mio piede. Il cambio dell’holder dei Raiders, probabilmente, è uno dei motivi del mio taglio. Ho sentito dire apertamente da diversi colleghi che avere un kicker mancino è un ostacolo. L’anno scorso ero di fatto il solo a calciare di sinistro nella lega Sebastian Janikowski (il kicker che Tavecchio ha sostituito dopo l’infortunio l’anno scorso, ora a Seattle, ndr) è stato per anni il solo kicker mancino nella lega.
Perché non vai a giocare nella lega canadese?
Mi piacerebbe, ma non è facile. Là hanno pochi posti riservati agli stranieri, e spesso non li usano per i kicker.
Hai guardato le partite dello scorso fine settimana?
Poco, non ce l’ho fatta. Ma ho visto i Raiders, che hanno perso contro i Rams. Faccio il tifo per i miei compagni che giocano lì, conservo dei grandi amici a Oakland.
Per chi tifi adesso?
Per i kicker di ogni squadra, che facciano bene. E un po’ per i Falcons, che mi hanno trattato alla grande.
Chi sono i tuoi colleghi preferiti?
Tra i kicker Justin Tucker di Baltimora, perché quando entra in campo si prende sempre la scena. E poi Dan Bailey, ex dei Cowboys, con il suo calcio morbidissimo: è stato da poco tagliato, ora è un mio “concorrente”. E poi l’immancabile Gostkowski dei Patriots, sempre incredibilmente efficace. Il mio idolo, in assoluto, però è Aron Vinatieri, che ha fatto alcuni dei calci più importanti nella storia del gioco. E Peyton Manning, l’ho conosciuto e lo apprezzo molto: un ragazzo umile, normale.
So che sei un grande appassionato di calcio. Riesci a giocare un po’ di più, ora che sei fermo?
Gioco a pallone con gli amici, ma cerco sempre di non evitare gli infortuni. Ora vorrei tornare a giocare in maniera più regolare, un po’ più agonistica. Sono un dieci, ho sempre avuto un discreto tocco di prima.
E una discreta “mina”, immagino. La gente non si vorrà mai mettere in barriera, quando tiri tu.
In realtà non ci si mettono neanche, perché sanno che tirerò altissimo (ride).