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Essere Diego Maradona, anche dalle tribune

La notte da guida spirituale del Diez non poteva non finire come Senna a Interlagos

Diego Armando Maradona sul finale di Argentina - Nigeria.

Quando Diego indica la luna lo stolto guarda il dito. Medio.

Sui social, nel dibattito pubblico e sportivo, in tv e persino nei bar si parla solo di quello. Io stesso ho appena cestinato un pezzo in cui ribadivo la retorica sacrosanta ma forse consumata del Maradona contro tutto e tutti. Quello di ieri é semplicemente Diego Armando Maradona in tutto il suo disperato splendore, nella sua passione totalizzante, nel suo essere uomo e simbolo.

Non è il calciatore, non é l’amico idealista e ingenuo dei caudillos, non è, come molti insinuano, il cocainomane.

É il bambino che in un filmato in bianco e nero palleggia nel fango, é l’adolescente che rivela i suoi sogni ai microfoni dei giornalisti che cominciano a scoprirlo. Non vincere il Pallone d’oro, né essere il piú forte di tutti. Lui ha “solo due desideri: giocare un mondiale con l’Argentina e vincerlo”. É l’uomo che prende falli ferocissimi in ogni partita e reagisce una volta sola in carriera: contro colui che lo ha reso invalido al 20% a una gamba, quella sinistra che dovrebbe finire in un museo, quando al suo ritorno in campo gli rifà un’entrata assassina. É il capitano che in uno stadio che insulta il suo inno, il suo paese, la sua gente urla con le lacrime agli occhi “hijos de puta”. É il padre fragile che in Maradona by Kusturica canta piangendo il celebre pezzo a lui dedicato per e con le figlie.

É il campione che a Napoli dimostra che per una maglia, una cultura, un popolo e una terra che ama, farebbe tutto. E anche di più. É il più grande calciatore del mondo che in una partita segna il gol più furbo e quello più bello della storia ed esulta per le Malvinas, ma l’urlo commovente, animalesco, liberatorio lo riserva per un assist, al gregario Burruchaga, quando in una finale drammatica in cui Matthaus non gli ha lasciato respiro va a fare il libero e lo lancia verso un 3-2 che vuol dire la prima vera coppa del mondo per l’Albiceleste. La prima, quella del 1978 e di Mario Kempes, era sporca del sangue versato dai militari e di imbrogli imbarazzanti.

Per capire Diego Armando Maradona vanno messe in fila queste emozioni e capire che D10S é l’Argentina e viceversa. Un uomo e un paese contraddittori, capaci di meraviglie e nefandezze, spesso autolesionisti ma capaci di risorgere mille volte dalle proprie ceneri. E Maradona con quella bandiera, quei colori, quel popolo ha un rapporto simbiotico. Quello spirito tipicamente sudamericano che ti mette dentro un dolore malinconico insieme alla capacità di dare gioia, che tu sia borghese come Ayrton Senna o proletario come il Pibe.

In Nigeria-Argentina il campione dei campioni é stato patetico? Sí, se scaviamo nell’etimologia della parola pathos che mischia dolore e passione, rabbia e rivalsa. Si consuma Diego perché sente il peso di essere icona, simbolo, tramite divino di un senso di appartenenza che deve veicolare al resto del mondo. Si trova spossato e senza forze perché lui deve far vincere l’Argentina, deve fare il suo anche dagli spalti. E come non si risparmiava in campo, così fa nel palco privato degli stadi russi. Come Senna che per vincere Interlagos (non un mondiale ma un singolo gran premio, quello di casa) guida con una marcia in meno, urla piangendo di gioia all’arrivo e poi dal suo bolide lo devono tirare fuori di peso. Il destino dei grandissimi, condannati a regalare gioia agli altri e ad accumulare dolore dentro di sé. Che può consumarli in una curva o in una vita di eccessi.

Che ne sapete voi di Maradona, dell’uomo che combatte solo le battaglie che sa di perdere, come quella contro Blatter ed Havelange, che chiamava mafiosi perché lo ingannarono nel 1990 e nel 1994, rubandogli due mondiali che lui voleva vincere non per sé, era già leggenda, ma per la sua gente. Per loro affrontó due ritiri monastici di un mese, cosa mai successa in carriera.

Ridete pure di Diego, il punk che sa suonare Mozart, ma nessuno prova l’amore totale, puro, inesauribile che lui ha dentro. E che lo sta consumando. Diego, ora basta. Pensa a te, non agli altri: vivi per te stesso. Noi proveremo a farcela anche senza di te.

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