«E così pensavi che non esistessimo», esordisce Raphaela Lukudo. Invece la 24enne velocista italiana, cresciuta a Modena da genitori sudanesi, è davanti a me, statuaria e sorridente. Accanto a lei c’è Maria Benedicta Chigbolu (nata nel 1989 a Roma, da mamma italiana e papà nigeriano). Siamo in un hotel di Milano, dalle parti del Castello Sforzesco. Le due atlete azzurre paiono tornate da un allenamento al Parco Sempione, visti i loro completi iper tecnici firmati Nike, invece si sono svegliate da poco. Fra un’oretta saliranno su un taxi per raggiungere un liceo cittadino e incontrare gli studenti nell’ambito della campagna Nulla può fermarci, dedicata allo sport e all’empowerment femminile.
Le ragazze, ora alle prese con il primo caffè della giornata, paiono aver preso molto sul serio la loro missione. Evidentemente a Raphaela, che ancora prima di stringermi la mano mi ha gelato con la sua battuta, è stato riportato un aneddoto che la riguarda, e che io avevo ingenuamente confidato il giorno prima a una conoscenza comune.
La storia risale a domenica 1 luglio, quando su Facebook mi appare una foto che mi lascia un attimo interdetto: ci sono quattro ragazze di colore su una pista di atletica con addosso la casacca azzurra, tre di loro posano da Charlie’s Angels. Mi avventuro nel feed e vedo che l’immagine si sta replicando. È come se in quello scatto ci fosse qualcosa di strano, tipo quando vedi colori irreali ritoccati con Photoshop. Insomma, puzza di fake lontano un chilometro. Comincio a fare delle ricerche.
Capisco che si sono appena conclusi i Giochi del Mediterraneo di atletica a Tarragona, in Spagna, e che effettivamente l’Italia femminile ha vinto la staffetta 4×400 grazie a un team di sole ragazze di colore. I loro nomi: Raphaela Lukudo e Maria Benedicta Chigbolu, che ora sono accanto a me, assieme a Ayomide Folorunso e Libania Grenot. In realtà è accaduto il giorno prima rispetto alle mie ricerche, ma il delay è perfettamente compatibile con i tempi della stanza dell’eco social.
La foto pare autentica, la postiamo dunque sui canali di Rolling Stone. In un attimo è un diluvio di reazioni. La vittoria delle quattro ragazze finisce in home su tutti i siti; politici e influencer si accapigliano, Salvini risponde controvoglia. Le campionesse sono diventate virali, e io mi sento un po’ in colpa con loro.
Da qui parte la mia conversazione con Raphaela e Benedicta, che ora mi guardano con un filo di perplessità dal loro divanetto.
È come se quella foto fosse fatta troppo bene…
RAPHAELA Invece eccoci qua…
BENEDICTA E pensare che noi non avevamo capito cosa fosse successo fino a qualche ora dopo la gara. Tra di noi si faceva qualche battuta – ci chiamavamo le “All Blacks” (Benedicta prende in giro la collega perché usa l’espressione “di colore”: “io so’ nera, mica de colore” le dice, tradendo l’accento romano) -, ma nulla di più. Nel nostro mondo è una cosa normale, guarda la nazionale inglese, francese o americana. È che in Italia, da questo punto di vista, siamo ancora un po’… indietro. Si può dire che siamo indietro?
Che sensazioni avete avuto nelle ore successive, mentre la vostra foto “esplodeva” in Rete?
BENEDICTA Ho subito pensato “wow, finalmente si parla di atletica femminile”. Per me è normale essere nera e italiana, ma mi rendo conto che in questi tempi la paura del diverso è parecchio diffusa. Essere strumentalizzate non è mai bello, ma se serve a fare filtrare un messaggio positivo ben venga. Essere considerata un simbolo di integrazione è una cosa meravigliosa.
RAPHAELA Ricordo che nelle ore successive i miei amici mi hanno bersagliato di screenshot: “ti ha retwettato questo”, “ora quest’altro”. Ho dovuto tenere il cellulare sotto carica per tutto il giorno. In un primo momento ero al settimo cielo, poi mi sono accorta che dalla nostra medaglia si era subito passati a discutere di altro. Sono contenta di aver mosso un po’ le acque, diciamo così, e che in qualche modo la nostra disciplina sia finita sui telegiornali. Ho apprezzato meno di essere stata tirata fuori dal mio ambito, che rimane quello sportivo. Non mi sento adeguata per essere una donna simbolo.
Avete ricevuto insulti?
BENEDICTA Pochi, un paio al massimo, tra mille complimenti. E li ho bloccati subito.
RAPHAELA Nemmeno ci faccio più caso, gli metto subito una X sopra.
Quanto contano per te le radici, e quanto la maglia azzurra?
RAPHAELA La maglia azzurra è una meravigliosa responsabilità, è come se ogni volta che la indosso facessi un giuramento. Io sono nata in Italia e sono italiana, fine. Allo stesso tempo sono convinta che una persona sia fatta di tutte le esperienze della sua vita, e il fatto che i miei genitori abbiano altre tradizioni mi rende più ricca. Vale per i ragazzi di seconda o terza generazione, oppure i “mezzi e mezzi” come Benedicta (“sei un cappuccino”, le dice ridendo).
BENEDICTA Provo un orgoglio enorme a rappresentare il mio Paese, è come se corressi con un sacco di persone al mio fianco. Allo stesso tempo amo i mix e vado fiera delle mie origini, della mia metà nigeriana. Ricordo che nel 2013, alla mia prima volta in nazionale, i dirigenti della selezione nigeriana hanno visto il mio cognome sul pettorale e sono venuti da me, anche perché mio nonno è stato un saltatore in alto della loro nazionale. Così abbiamo cominciato a chiacchierare, nel mio inglese non proprio perfetto… Pensare che oltre all’Italia anche parte della Nigeria faccia il tifo per me, così come i miei parenti a Londra, a Los Angeles e sparsi ovunque nel mondo, mi riempie di gioia.
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
RAPHAELA Anzitutto riprendermi a pieno dopo il Campionato europeo indoor, dove ho portato a casa il mio record personale sui 400 e conquistato il bronzo nella staffetta sulla staffetta 4×4.
BENEDICTA Intanto ci stiamo preparando per i Mondiali di staffetta a maggio, il nostro primo obiettivo, e per il Campionato del mondo di atletica da settembre a Doha. Il tutto cercando di qualificarci alle Olimpiadi di Tokyo, dove per la prima volta ci sarà anche la staffetta mista, due maschi e due femmine.
Perché è importante che le ragazze si avvicinino allo sport?
RAPHAELA Perché troppo spesso siamo ancora considerate meno degli uomini – non nell’atletica, che è una disciplina abbastanza equa -, e lo sport è uno dei modi migliori per dimostrare che in realtà non c’è differenza tra i generi, ma grazie alla propria personalità chiunque può arrivare dove vuole. Attraverso la corsa io ho trovato la possibilità di esprimere me stessa: lo sport mi ha dato identità e ha formato il mio carattere.
BENEDICTA Siamo abituati alla minore visibilità, anche se poi ultimamente sono le donne in Italia ad avere i risultati migliori. A volta ci si stupisce ancora che una ragazza faccia la sportiva, che giochi a calcio oppure pratichi altre discipline. Invece è importante ribadire che ci siamo anche noi.
Come si aumenta il numero delle ragazze che praticano sport?
RAPHAELA Bisogna partire dalle scuole, il mezzo più efficace per veicolare la cultura sportiva. Servirebbero iniziative di comunicazione rivolte ai giovani, per spiegare quanto sia importante fare sport. Altrimenti si rischia di rimanere chiusi nel proprio mondo, e perdere una magnifica occasione di crescita e arricchimento personale.
BENEDICTA Inoltre in una società sempre più tecnologica e digitale, dove si trascorrono tante ore seduti davanti a uno schermo, è importante essere attivi. Lo sport è il modo migliore che ci sia per conoscere se stessi e gli altri in profondità. E ti prepara alla vita.
Quando ti sei innamorata della corsa?
RAPHAELA Ho iniziato a 12-13 anni un po’ per caso, dopo aver fatto un buon tempo in una gara con la mia scuola media. Da lì mi hanno proposto di continuare e, visto che i risultati arrivavano, non mi sono più fermata.
BENEDICTA Io, invece, ho iniziato a 16 anni, grazie a un professore che mi ha indirizzato allo sport. All’inizio credevo poco nelle mie possibilità, poi ho capito quanto l’allenamento fosse fondamentale per superarsi e mi sono ritrovata in un mondo che amavo e in cui mi sentivo amata. Quandomi è toccato fare scelte e sacrifici, ero certa del mio percorso. E poi io sono una costante, super testarda: una volta che mi pongo un obiettivo, devo arrivarci a tutti i costi.
Chi sono le atlete che più ti hanno influenzato?
BENEDICTA Serena Williams è stata la donna che ha cambiato le regole del gioco. In Italia Bebe Vio è una straordinaria ambasciatrice del valore delle donne.
RAPHAELA Serena è il mio esempio, da sempre.
«Scusa ma ho solo 20 minuti, poi devo andare dal medico». Non basteranno, e di certo non per colpa mia. Perché quando inizia a parlare Ayomide Folorunso, che raggiungiamo al telefono mentre è a Roma a completare il recupero da un lieve infortunio, è parecchio difficile da arginare. Ha 22 anni, è nata in Nigeria ed è arrivata a Fidenza da bambina: è la più giovane tra le quattro frecce azzurre.
Come stai?
AYOMIDE Sempre meglio. Voglio tornare al massimo per i Mondiali di staffetta a Yokohama. Non parlatemi delle Olimpiadi, perché a Tokyo manca davvero tanto tempo ancora. In mezzo ci sono altri obiettivi importanti da raggiungere, per cui ci vogliono pazienza, determinazione e consapevolezza.
Ti piace il ruolo di testimonial?
AYOMIDE Mi fa un po’ strano, visto che fino a poco tempo fa pensavo solo a vincere i campionati studenteschi o quelli provinciali. È bello vedere il potere che ha lo sport nel motivare le persone, e amo l’idea che ciò che faccio possa ispirare qualcuno. Non l’avevo in alcun modo programmato, ma ne sono felice.
Ti senti una femminista?
AYOMIDE Dammi una definizione di femminista, e ti rispondo (ride). Diciamo che sono contenta che sia in atto questa piccola rivoluzione dell’empowerment femminile, che io non vedo minimamente come uno scontro donne vs. uomini. In passato è come se la forza delle ragazze sia stata un po’ nascosta, e ora è importante ribadire con convinzione quanto valiamo. C’è ancora molto da fare, ma la strada è giusta.
Le donne sono sottorappresentate nello sport?
AYOMIDE Ahimè sì. Per le femminucce i modelli sono pochi e non molto visibili, a differenza dei maschietti. Oggi ci sono due o tre figure femminili di riferimento, quando ce ne vorrebbero 10mila.
Quando ti sei innamorata della corsa?
AYOMIDE Con il tempo. All’inizio tra me e la corsa è stata più che altro una bella amicizia: ci siamo limitati al “ciao, come stai?” per un po’ di tempo, poi siamo entrate in confidenza e ora non ne posso più fare a meno. Sarò sempre grata al mio prof di ginnastica delle medie, che mi ha incoraggiato a provare. C’è tanta gente a scuola che, con poche risorse e un po’ isolata, continua a crederci.
Lo sport ti ha cambiata?
AYOMIDE Ha aiutato a rafforzare la mia autostima, a convincermi che i limiti sono solo nella nostra testa. Per una ragazza in fase di formazione è un messaggio decisivo: sei solo tu che puoi decidere cosa si può fare e cosa no. Quando davanti a te c’è un muro, abbattilo: al di là troverai un sacco di opportunità.
Che ricordo hai della vittoria ai Giochi del Mediterraneo e del successivo impazzimento social?
AYOMIDE Prima di tutto ricordo la gioia personale per essere riuscita a correre due volte i 400 metri in meno di un’ora a ottimi livelli, nonostante l’acido della fatica al cervello. Il giorno dopo alle 9 del mattino mi ritrovo col telefono scarico e venti chiamate perse: “mamma mia, cosa succede?”, penso. Non capivo, io non avevo prestato caso al fatto che fossimo tutte nere: è dai tempi delle gare regionali in Emilia Romagna che vedo staffette all-blacks. Tutto quello scalpore è stato strano, ma mi piace pensare che grazie alla nostra visibilità qualcuno possa aver scoperto l’atletica.
Ti ha dato fastidio essere strumentalizzata da qualcuno?
AYOMIDE Spero che la gente capisca che non è importante il fatto che siamo tutte nere, ma solo che siamo delle brave atlete, capaci di ottenere successi internazionali per l’Italia.
Ti senti italiana al 100 per cento, anche se sei nata in Nigeria?
AYOMIDE Mi sento bi-culturale. Le mie radici saranno sempre nigeriane – yoruba, in particolare -, ma sono cresciuta in Italia e devo tantissimo a questo Paese. Anche perché se fossi rimasta in Nigeria, sono sicura che nessuno avrebbe scoperto il mio talento e non sarei diventata una sportiva. Diciamo che sono 50 per cento italiana e 50 per cento nigeriana, e cerco di promuovere gli aspetti migliori delle due culture.
Libania Grenot risponde all’ultimo squillo: negli ultimi giorni è stata molto impegnata. Nata a Santiago di Cuba nel 1983, è la veterana della staffetta azzurra e quella con il curriculum sportivo più luccicante. Due volte campionessa europea nei 400 metri piani e primatista nazionale sia su quella distanza che sui 200 metri, prima di ottenere la cittadinanza nel 2008 aveva corso per la selezione cubana. «Da cosa cominciamo?», chiede.
Che messaggio vuoi mandare ai giovani con il tuo percorso e con i tuoi successi?
LIBANIA Il mio slogan è “volere e potere”, un motto che non prevede distinzioni di sesso: tutti possiamo essere forti e tutti possiamo essere deboli, indipendentemente dai generi. Inoltre voglio dire ai ragazzi che lo sport è educazione e rispetto delle regole e che il sacrificio paga sempre: non bisogna mai mollare. Anche se ho iniziato a correre all’età di 9 anni – in un collegio in cui si studiava e si praticava atletica -, i miei successi più importanti sono arrivati dal 2014 in poi, quando avevo già 31 anni.
Che ricordo hai della vittoria di Tarragona?
LIBANIA Il ricordo è bellissimo, come tanti altri della mia carriera che porto nel cuore: è stata la riprova che l’unione fa la forza. Il fatto che tutti poi abbiano parlato di noi non mi ha impressionato granché, solo un po’ di meravigliato. Mi chiedo il perché di tanto clamore: è sport, non altro.
Ti senti un simbolo di qualcosa?
LIBANIA Spero di esserlo. Vorrei che tutti i giovani avessero la mia stessa forza di volontà, specialmente nei periodi meno belli. Ogni volta che ho attraversato quei momenti, mi sono rialzata più forte di prima.
Il tuo cuore è diviso tra Cuba e l’Italia?
LIBANIA Sono molto legata alla mia Cuba, come è giusto che sia. Le radici non si dimenticano, lì ho tutti i miei ricordi. Allo stesso modo mi sento azzurra al 100%: sono fiera di rappresentare la nazionale, di essere italiana.
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Cover
Da sinistra. Per Raphaela Lukudo top NIKE e pantalone metallizzato ANNAKIKI; per Ayomide Folorunso top NIKE e culotte TEZENIS; per Libania Grenot total look NIKE; per Maria Benedicta Chigbolu top NIKE e culotte TEZENIS.
Credits
Fotografo: Chiara Mirelli
Fashion editor: Francesca Piovano
Fashion editor assistant: Giulia Bandioli
Grooming: Guia Bianchi
Hair styling: Elena Gaggero