La scritta “Destroyer” sul pantaloncino, sotto l’ombelico. Il pizzetto di chi non ha mai pensato fosse possibile cambiare il proprio look. Gli ultimi tremori della fatica sulla pancia. Lo sguardo annebbiato, ma dritto sull’avversario a terra. È un’istantanea perfetta, che fa il giro del mondo. Quello in piedi è Andy Ruiz Jr, pugile statunitense di origini messicane, al tappeto, destinato a non rialzarsi dal KO, il campione inglese dei pesi massimi Anthony Joshua, detentore dei titoli di quattro delle cinque maggiori federazioni internazionali (IBF, IBO, WBA e WBO), la (ex?) stella più luminosa della boxe internazionale.
È successo un sabato sera ai primi di giugno al Madison Square Garden di New York, dove è andato in scena il più clamoroso upset del pugilato contemporaneo. La vittoria di Ruiz, diventato per tutti “il pugile ciccione” nei giorni successivi, rinnova una volta di più il mito della disciplina, che offre un’opportunità a tutti e in cui, al di là della fama e dei milioni di dollari incassati, a sfidarsi sono solo due uomini con i polsi fasciati e i guantoni. E non c’è nulla di scontato.
Ruiz (e Tyson Fury prima di lui) con la sua storia di redenzione – è nato in California da genitori messicani e lo sport lo ha tenuto lontano dalla violenza, ma non dai fast food – è il meglio che potesse capitare alla boxe, un nuovo boost alla sua risalita dopo anni molto, molto difficili. Messo all’angolo dalla mancanza di personaggi convincenti, dal calo dei fatturati e dal boom delle arti marziali miste, il pugilato ha vissuto il peggior decennio della sua storia, senza più arene piene né titoli di giornali. Dopo i fasti del feud Pacquiao vs. de la Hoya e al di là dei lustrini di Floyd Mayweather, soprattutto tra i pesi massimi, la quintessenza della disciplina, non c’è stato più nulla di rilevante. Fino a spingere sul baratro dell’irrilevanza uno sport dalla tradizione unica.
La tendenza da alcune stagioni pare essersi invertita, e, se è vero che più indizi fanno una prova, oggi coinvolge la nouvelle vague del pugilato anche l’Italia. Da noi il cambio di passo ha un data ben precisa: 30 novembre 2018, giorno in cui al Teatro Obihall di Firenze viene organizzata una serie di incontri tra pugili italiani e inglesi, tra cui quello attesissimo che vede l’idolo di casa Fabio “Stone Crusher'” Turchi difendere il titolo WBC International Silver dei massimi leggeri contro Tony Conquest.
L’idea nasceva da una joint venture tra Matchroom Boxing, il principale organizzatore di eventi pugilistici al mondo, OPI Since 82, promotore di match di casa nostra, e DAZN, la piattaforma di sport in streaming che ha fatto il suo ingresso da questa stagione nel nostro Paese, e, dopo il calcio, ha puntato forte anche sui guantoni. Circostanza che ha fatto tutta la differenza del mondo. «Il nostro obiettivo è accompagnare il processo di crescita del pugilato in Italia, come già avvenuto in Inghilterra e negli Stati Uniti. In questi Paesi i match dal vivo sono tornati a rappresentare un momento sociale importante e lo stesso sta accadendo anche qua», dice Veronica Diquattro, vicepresidente esecutivo per il mercato Sud Europa di DAZN.
La sua visione è confermata anche da Eddie Hearn, Sports Promoter & Managing Director di Matchroom Sport. «Questo è un nuovo inizio per la boxe italiana, che è rimasta dormiente per anni. Ricordo negli anni passati i continui viaggi di mio padre da voi, per assistere ai combattimenti dei più importanti atleti europei. Negli ultimi 10 anni non c’è stato nulla di tutto ciò, ma ora è tempo di cambiare la rotta», spiega. «La sensazione è che stiamo realizzando qualcosa di speciale, che il vostro Paese stesse aspettando quest’opportunità da anni. Il piano è ricostruire la boxe in Italia e farlo in fretta, puntando su talenti che aspettano solo di essere scoperti».
Ora tocca a Salvatore Cherchi, presidente di OPI Since 82, fare un po’ di storia. «La discesa era cominciata negli anni ’90, quando il calcio ha iniziato a “mangiarsi tutto”, dai diritti tv agli sponsor. Non è successo solo alla boxe, ma anche basket e pallavolo, per fare altri esempi, hanno vissuto momenti drammatici. Ora con la televisione – lo streaming è solo un altro tipo di tv – rinnoviamo la nostra presenza, con una produzione che vale quelle americane, inglesi o messicane. Sta capitando nuovamente quello che era successo negli anni ’80, con i primi contratti per la visione in chiaro: c’è lo stesso tipo di progettualità».
Per Cherchi, storico promoter del pugilato italiano, la parola d’ordine è continuità. «Se, poniamo il caso, il Milan giocasse una volta ogni due mesi, difficilmente la gente finirebbe per appassionarsi. Se giochi ogni settimana, invece, il pubblico si fidelizza. Lo stesso sta avvenendo con la boxe, grazie anche al traino della disciplina a livello internazionale».
La prossima tappa di questo “rinascimento” – un appuntamento fondamentale per capire se tanto entusiasmo è giustificato – sarà il prossimo 28 giugno, quando la boxe riaprirà dopo anni di lavori l’ex Palalido di Milano, oggi ribattezzato Allianz Cloud. Un evento molto atteso – anche per via della location, l’ex tempio della boxe e dello sport cittadino che torna a disposizione dopo tanti ritardi e guai -, che sarà trasmesso da DAZN, ancora una volta parte della squadra degli organizzatori. I main event saranno due: quello in cui il campione d’Europa dei pesi leggeri Francesco Patera (21-3) difenderà la cintura contro il nord-irlandese Paul Hyland Jr.(20-1) e quello che pone uno di fronte all’altro il campione internazionale dei supermedi IBF Daniele Scardina (16-0 con 14 vittorie per KO) e Alessandro Goddi (35-4 e 1 pari).
Scardina è oggi il volto di copertina del pugilato italiano ed è già stato il protagonista della serata dell’8 marzo, quando al Superstudio Più ha sconfitto Henri Kekalainen. Già allora, con un sold out quasi immediato, il pubblico milanese aveva risposto alla grande. Ora si rilancia, con “Toretto” ancora una volta in prima linea.
Daniele Scardina
Sotto al suo palco si vedono spesso Gué Pequeno, Sfera, Charlie Charles e altri protagonisti della scena rap italiana. Che oggi sono felici, perché non devono più trasferirsi ogni volta dall’altra parte dell’oceano per assistere a un match dell’amico “Toretto”. Così, come il Vin Diesel di Fast & Furious, è soprannominato Daniele Scardina, il nome più cool della disciplina in Italia, l’unico capace davvero di unire le performance sul quadrato alle doti di personaggio – social e non solo -, fondamentali per una disciplina che vuole recuperare il terreno perduto. Daniele, corpo coperto di tatuaggi e attitudine parecchio “street” è del 1992, vive a Miami, dove si è imposto come pugile professionista, ma è nato a Rozzano, periferia Sud di Milano, la città in cui ora si trova ancora una volta a difendere la sua cintura.
Vivi extra motivazioni o extra ansie a combattere nella tua città?
No, è una cosa fantastica. Perché sotto al palco ci sono i miei fan e la mia famiglia, la mia gente: in tutto questo percorso (quello del suo “team Scardina”, ndr) ci sono dentro anche loro.
Dopo tanti anni di “esilio”, non devi più uscire dai confini per combattere ad alto livello?
Il momento è propizio per il pugilato in Italia, la spinta che ci sta dando DAZN è da sfruttare. Gli investimenti ci sono, la passione popolare pure. Ora ci vogliono pugili che facciano la loro parte sul ring, anche dal punto di vista mediatico e emozionale. Non ci manca più nulla, è pure riaperto il Palalido: un posto spettacolare. Bisogna crederci.
Chi ti troverai di fronte il 28 giugno?
Alessandro Goddi è un avversario molto aggressivo. Sono sicuro che faremo un match avvincente, di quelli che il pubblico si potrà godere. Ma ora cerco di non focalizzarmi troppo sul suo stile di combattimento o sulla tattica di usare, penso solo ai miei punti di forza e a quelli da migliorare in questi ultimi giorni di preparazione.
Perché, affianco all’aspetto sportivo, è così importante “comunicare” il proprio personaggio?
Perché è sempre stato così: pensa ad Ali, in tempi del tutto differenti. Bisogna fare qualcosa per fare parlare di sé. Ora abbiamo il grande vantaggio dei social, che ci aprono al mondo intero. Ho ricevuto critiche feroci per il mio uso di Instagram. Io in palestra dò sempre il massimo e non ho mai il telefono in mano. Se, fuori dagli allenamenti, posso mandare il mio messaggio, che male c’è…
E qual é il tuo messaggio?
Ognuno ha il suo stile di vita, un suo modo di essere. Per questo mi piace esprimermi in tutto quello che faccio, dalla boxe alla musica, al modo di vestire. Non parlo solo ai fan del pugilato, voglio rivolgermi a tutti quanti. Magari uno lo conquisto per il look e non per i pugni, e va bene uguale. In questo gli americani sono dei maestri.
Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Molto reggaeton quando mi alleno, da Bad Bunny a Daddy Yankee, oltre a un rapper dominicano di nome Cristiano, di cui adoro i testi. E poi i miei amici, come scordarmi di loro: Gué, Marra, di cui attendo con ansia il nuovo disco, Sfera, Capoplaza o Tedua. Loro in playlist ci sono sempre.
Una cosa in comune tra Miami Beach e Rozzano?
Che mi sento a casa in entrambi i posti.
Vissia Trovato
Ha frequentato Brera, dove si è laureata in Restauro e Arte contemporanea. Ha studiato jazz alla Scuola Civica e insegnato canto per anni. E picchia come poche altre signore in Italia. Vissia Trovato è oggi la stella più scintillante della nostra boxe al femminile, volto da copertina (come Scardina) di un movimento che copertine ne ha avute sempre troppo poche. Brianzola, 36 anni, sale sul ring solo da 8. In così poco tempo, senza troppe strategie e con una buona dose di lucida follia, ha scalato ogni gerarchia, fino a contendere il titolo Silver dei pesi piuma per la federazione Wbc lo scorso 8 marzo al Superstudio Più di Milano. Alla fine ha vinto la messicana Erika Cruz Hernandez, ma la sua prestazione è stata impressionante. E, non a caso, ora ha una nuova grande chance per scalare l’ultimo gradino verso l’olimpo. La rossa di origine siciliana, però, non pare affatto intimorita.
22 giugno: Edmonton, Canada. Ti giochi la doppia cintura Wbc e Wba (contro Jelena Mrdjenovich che detiene il titolo da sei anni, ndr) e sei così tranquilla?
Sì, perché so che, qualsiasi cosa succederà, il giorno dopo si aprirà una nuova pagina della mia vita. E l’idea mi piace molto. Allo stesso tempo sono consapevole del fatto che quel match rappresenta il momento più alto della mia carriera sportiva, uno dei momenti più emozionanti a cui potessi ambire di prendere parte.
Per te è un gran momento. E per la boxe femminile?
Altrettanto. Perché la boxe femminile viaggia da sempre in parallelo con quella maschile, difficilmente si ritaglia momenti di grande autonomia. Ed essendo un ottimo momento per i colleghi uomini, anche per noi le cose vanno alla grande.
Qualcosa è cambiato nella percezione delle donne che praticano sport di combattimento?
Io non ho mai dovuto superare grandi pregiudizi, anche perché quando non ti fai problemi a fare una cosa è più difficile che noti quando sono gli altri a portene. Inoltre per chi mi conosceva non è stato per nulla una sorpresa il mio amore per il pugilato: è sempre stato perfettamente coerente con la mia originalità e stranezza di fondo. Più in generale, mi pare che in questo momento l’idea della donna che combatte e si sa difendere riscuota consenso. Il boom di altre discipline, penso al crossfit, ad esempio, ha sicuramente aiutato. Oggi vedere una donna muscolosa che fa attività fisica di un certo tipo è molto meno raro che in passato.
Cosa manca ancora, invece, al movimento pugilistico italiano?
Investimenti convinti sui giovani atleti. Credere in loro, mandarli alle competizioni nazionali e internazionali, proporre volti nuovi e puntare sulle abilità individuali. Io vedo grandi talenti in giro. Spero che tanti ragazzi e ragazze abbiano le opportunità che ho avuto io, “povera anziana” del ring.
Ma è vera la storia che hai iniziato a combattere per dimagrire?
Certo che è vera: la mia carriera sportiva è frutto di una buona dose di casualità. Volevo perdere peso e gli orari della palestra più compatibili con i miei erano quelli di una struttura che faceva pugilato, e che ora gestisco (a Cernusco sul Naviglio, a Est di Milano, ndr). Lì ho avuto la fortuna di conoscere Alfredo Farace, che ha creduto fortemente in me come atleta e come persona. Tra noi si è instaurato un legame fortissimo, che ci ha portati per un periodo anche a essere compagni di vita. Grazie a lui la mia dedizione per la disciplina è diventata totale, il gioco è diventato una cosa seria.
Pensi che ce ne siano tanti di maestri così sul territorio?
Sì, ne sono convinta. E so che tanti riescono a cambiare la vita agli altri, insegnando lo sport e le sue regole. La palestra è un enorme punto di riferimento per i ragazzi sul territorio, ha una funzione sociale importante.
Chi sono i tuoi pugili preferiti?
Ho sempre apprezzato la spavalderia di Roberto Duran e la forza mentale di Muhammad Ali. Tra le donne amo lo stile di combattimento e il sorriso sul ring di Jessica Bopp.
Sei stata per anni una cantante blues professionista (qua un piccolo saggio, per cui ci maledirà…). Riesci ancora a dedicarti alla musica?
Molto meno, purtroppo. Però ho ancora due band con cui mi esibisco, anche se ovviamente tutte le date sono state messe in stand by fino al match canadese. Ho un’anima black molto spiccata, adoro Billy Holiday, Hendrix, Amy Winehouse e Bruno Mars. E sì, qualche volta mi è capitato di esibirmi con la faccia un po’ gonfia…
Fabio Turchi
Lo “spaccapietre” – ma Stone Crusher, il soprannome con cui tutti lo conoscono, suona un po’ meglio – della boxe italiana è nato a Firenze il 24 Luglio 1993, e sul ring ci è salito seguendo una dopo l’altra le orme del padre Leonardo, a sua volta pugile professionista. Fabio Turchi ha una simpatia contagiosa, anche se non è esattamente la prima cosa che noti quando te lo trovi di fronte. La sua ascesa è stata rapida, quasi inevitabile, fino a diventare il campione internazionale dei pesi massimi leggeri WBC, grazie a un record di 17 a 0. I suoi match sono stati il main event delle due serate organizzate da Matchroom Sport, OPI Since 82 e Dazn nella sua città, Firenze, il 30 novembre e poi il 26 aprile. Sempre lui chiuderà la serata di gala del Foro Italico di Roma, il prossimo 11 luglio. Turchi difenderà il titolo internazionale Wbc contro Tommy McCarthy, incontro clou al pari di quello del romano Emanuele Blandamura (29-3), che affronterà l’inglese Marcus Morrison (20-3, con 14 KO) per il titolo internazionale silver dei pesi medi Wbc, attualmente vacante.
Sei pronto?
Sono nel momento più intenso della preparazione: sono al lavoro iin palestra a Livorno dopo aver trascorso una settimana a Riga per un training con Mairis Briedis, un grandissimo dei medio-massimi. Sono molto carico.
Che match prevedi al Foro Italico?
Una sfida dura, contro una mia vecchia conoscenza dei tempi del dilettantismo: quando ero in nazionale, McCarthy combatteva per l’Irlanda. È un avversario tecnico, attendista, che ama colpire di rimessa. Lo rispetto, ma il mio obiettivo è quello di sempre: cercherò di batterlo prima del limite. Ho una striscia di vittorie da allungare e conto che una buona prestazione mi dia una chance di giocarmi il titolo di campione d’Europa.
Combatterai nel centro di Roma, in una location pazzesca. Cosa significa per il movimento pugilistico italiano?
Significa molto, per la boxe italiana e per me: questi eventi sono fondamentali per il pugilato. Che non può prescindere da Roma, da questa piazza speciale, unica.
L’Italia è sulla strada giusta?
Senza ombra di dubbio. Un anno fa in questo stesso periodo avevo solo prospettive negative per la mia carriera, c’era sempre il problema di trovare i soldi per andare in giro a combattere, allestire manifestazioni di livello. In pochi mesi tutto è cambiato, dagli scenari proposti, ai grandi avversari che oggi vengono nel nostro Paese. Il livello si sta alzando, ed è motivo di enorme soddisfazione. Anche perché il pubblico risponde in modo entusiasta e quello è il riscontro più importante di tutti.
A livello personale, il salto di qualità è arrivato quando sei passato sotto la guida di Lenny Bottai, leggenda della boxe più “popolare” (e della curva del Livorno, ndr). In qualche modo suona come un passaggio di consegne, tra un’epoca in cui, a parità di botte e sudore, il pugilato conquistava ben pochi riflettori, e quella attuale, in cui la tv ha portato con sé nuove opportunità?
Lenny è un grande, ha tutta la mia ammirazione. Nella sua carriera ha fatto tutto da solo: mentre si allenava, cercava sponsor e bussava a ogni porta per provare a organizzare un match. Mi sta trasmettendo tutte le sue esperienze, e non potrei chiedere di meglio. Con lui sono cresciuto come pugile, perché è un tecnico incredibilmente meticoloso, che cura i minimi dettagli. Inoltre andare a vivere a Livorno, per lavorare con lui, è stato un grande salto per me. Prima stavo con babbo, ora mi devo assumere tutte le responsabilità in prima persona. Sono fortunato a poterlo fare con Lenny.
Che musica ascolti?
Quando mi alleno cerco pezzi motivazionali, alla Rocky, per intenderci: funziona sempre. Nel tempo libero un po’ di tutto. Mi piace molto Cremonini, ci credi?
Ci credo, anzi piace anche a me. Per concludere, cosa manca ancora al pugilato italiano?
Non manca più nulla: ora tocca solo a noi pugili mettercela tutta e vincere gli incontri che contano.
Salvatore Cherchi non potrebbe essere più d’accordo con Turchi. «La differenza la fanno gli atleti», dice il numero uno di OPI Since 82, che negli anni ha organizzato match di tutti i nomi storici del pugilato italiano. «I giovani ci sono e vanno lanciati. Oltre a gente come Scardina, Turchi o Trovato, stanno crescendo nuovi personaggi, le cui qualità sono sotto gli occhi di tutti: penso a Natalizi, Zucco e Della Rosa. Il futuro va costruito, ma le premesse sono ottime».
I nomi e i volti sono fondamentali per il percorso di crescita della disciplina, il più grande patrimonio che la boxe abbia. «Funziona così da sempre: i grandi personaggi attirano un pubblico nuovo e meno coinvolto. Per questo un’icona come Anthony Joshua è per noi un valore aggiunto, per questo è decisivo in Italia coltivare una nuova generazione capace di emozionare la gente. Il vostro Fabio Turchi è un ottimo esempio, le persone oggi possono appassionarsi seguendo il suo cammino verso una chance per il campionato del mondo dei mediomassimi, che entro breve arriverà», aggiunge Eddie Hearn, Sports Promoter & Managing Director di Matchroom Sport.
Su Turchi, punta parecchie fiches. «Ha la determinazione e il talento giusti per rendere la boxe uno sport mainstream in Italia. Sono certo che lo dimostrerà l’11 luglio a Roma contro McCarthy, dopo aver dominato un grande nome come Tony Conquest in passato. Si sta davvero dimostrando all’altezza del suo soprannome: Stone Crusher».
Prima che il fiorentino porti la sua boxe nel cuore del Foro Italico, però, la carovana si sposta a Milano, in un altro luogo mitico, il Palalido. «Tornare in quell’arena il 28 giugno è una notizia che mi riempie il cuore di gioia. Quello di piazzale Stuparich è il vero tempio della boxe a Milano, io lo frequento fin dagli anni ’60. Qui ho organizzato il match per il titolo di Fragomeni (Giacobbe, ultimo grande pugile della scuola milanese, ndr) nel 2008 e prima ancora la sfida Parisi-Fuentes, uno dei combattimenti più belli che io ricordi, ormai 23 anni fa».
È anzitutto una questione di “educazione” allo sport. «Riportare i match live sul territorio contribuisce a fare rinascere una cultura, quella del pugilato, che da noi si era persa», spiega Cherchi. Che, mentre è intento a dare una sistemata al vertice, si compiace delle basi solide su cui poggia la piramide. «In Italia abbiamo 950 palestre e un milione e mezzo o due milioni di persone che praticano in maniera amatoriale la disciplina. Sono ingegneri, avvocati, impiegati o fruttivendoli, e hanno un gran voglia di boxe».
Per ora il movimento risulta più vitale nelle grandi città che in provincia. Prossima fermata? Bologna. «Il grande obiettivo», aggiunge Cherchi, «è riportare un giorno il pugilato al palazzetto dello sport cittadino. Ma poi, una volta “istituzionalizzati” gli eventi di Roma, Milano e Firenze, toccherà a Pesaro, alla Sardegna: luoghi un tempo centrali, e che devono tornare a esserlo». Una strategia che unisce la fisicità – anche estrema – di un match di pugilato alla “liquidità” di una tv senza palinsesti come DAZN. Il segreto sta tutto qua: «Il live dà una determinata tipologia di esperienza», dice Veronica Diquattro, «mentre lo streaming ti permette di portarla sempre con te. O magari di scoprire qualcosa che non conoscevi e poi andare ad approfondire dal vivo, proprio come avviene con i concerti».