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“Los Angeles è ancora in ginocchio”: sensazioni dal Kobe Bryant Memorial

L'inviato di Rolling Stone racconta come Los Angeles ha vissuto la cerimonia dello Staples Center, dalle lacrime di Michael Jordan ai ricordi di allenatori, compagni di squadra e rivali

Foto: David McNew/Getty Images

Giorno doloroso, tristissimo. Anche se è da circa un mese che caracollo come uno zombie incredulo senza meta alcuna, che non sia regolata dal click del telecomando dove cerco e vedo documentari, interviste, partite, interventi televisivi di Kobe (pur di stargli ancora vicino)… oggi ho il cuore spezzato più che mai, specialmente dopo aver assistito al bellissimo, struggente, rivelatorio e anche divertente non Memorial Funebre, bensì Celebrazione della Vita di Kobe e Gigi Bryant in quel Staples Center, che è la House that Kobe Built, la casa di Kobe. Yes, today it was a rough day.

Bellissima cerimonia in cui abbiamo goduto del ricordo di Kobe Bryant da un punto di vista personale, non più solo come un giocatore di pallacanestro, ma come un uomo, padre, compagno, amico, quel Kobe che una volta lasciato il parquet si è dedicato anima e cuore alla cosa più importante del mondo: la sua famiglia. E se Kobe ha avuto in mano lo Staples Center per 20 anni, ieri il palco è stato di Vanessa.

Onore e merito a Vanessa Bryant che dapprima ci ha fatto conoscere la figlia Gianna come mai l’avevamo vista, tenera, testarda, fluente in spagnolo e mandarino, una figlia sensibile, innamorata delle torte fatte in casa preparate per il suo papà, e che mai e poi mai sarebbe andata a letto senza baciare la sua mamma; poi ci ha ricordato il dolore di una madre che non la vedrà andare al liceo, prendere la patente né diventare a sua volta madre. Infine ci ha svelato l’intimità del suo Kobe, il marito, l’amante romantico, il suo Bubu, Cucu Papichulo, il suo Mamba e il dolore di non sentirsi più chiamare Principessa, Mambacita, Reina, VB (Vanessa Bryant). Loro che stavano insieme da sempre, lei che di Kobe è stata prima donna, confidente, primo amore e prima e unica compagna di vita. Poi è stata la volta di icone e di enfant prodige: Diana Taurasi – la “White Mamba” della WNBA –, Sabrina Ionescu, formidabile giocatrice dell’NCAA, e coach Geno Auriemma di UConn – l’ateneo cui era promessa Gigi – insieme a raccontare la passione di Kobe per il basket femminile e l’amore per l’insegnamento della famosa mamba mentality a sua figlia Gigi. Seguono l’amico-nemico Shaquille O’Neille, e soprattutto un emozionatissimo (lui che ha sempre odiato esporsi in prima persona) Michael Jordan, mito mentore preso da Kobe come pendolo massimo delle sue espressioni atletiche. Bellissimo capire quanto amore ci sia stato fra loro, quanta pazienza e rispetto Michael abbia avuto, proprio perché aveva capito che Kobe era un ragazzino/uomo la cui passione non aveva confini, il cui scopo principale era solo quello di diventare il migliore, fare di più, sempre e comunque. Never give up, leave it all out on the court.

Hanno pianto tutti. Jeanie Buss & Phil Jackson, Magic & Cookie Johnson, Dwayne Wade, Papà Joe “Jellybean” Bryant, Rob Pelinka, Shaq, The Cap Kareem Abdul Jabbar, Bill Russell, Gary Vitti il trainer di una vita, Kyrie Irving, Luke Walton, James la barba Harden e Russell Westbrook, Diana Taurasi, Sabrina Ionescu, Candice Parker, Maya Moore, Rick Fox, Chris Paul, Melo, Tyson Chandler, Doc Rivers, l’intera squadra dei Celtics, il mito Jerry West … piangevano proprio tutti e 24mila (#24), Beyoncé & Jennifer Lopez incluse.

Difficile spiegare come e quanto personalmente stia male, perché l’ultima volta che l’avevo visto (interviste, partite NBA, presentazioni sneakers, le sue ZOOM Kobe 6 Black Del Sol), alla partita inaugurale dei Lakers stagione 2019-2020 in occasione del Media Day di King Le Bron James, era felicissimo, sorridente come non mai, come chi non avesse pensieri né preoccupazioni. Sorridente, con a fianco #2, Gianna Gigi Bryant, sua erede cestistica, la nuova stella emergente della WNBA futura; la donna che avrebbe condotto per lo sport femminile cause importanti, in primis la parità economica con i colleghi maschi.

Sono incazzato perché non è giusto, it’s not fair. Immaginatevi per un secondo che dopo aver giocato 20 anni in una sola squadra, dopo aver sputato sangue e sudore per quella maglia che rappresentava (nella gloria e nelle critiche) il tessuto sociale di un’intera città; dopo aver speso tutte le proprie forze (“Mamba Out” con tanto di 60 punti nell’ultima partita giocata); dopo aver sacrificato qualsiasi cosa per il bene dei Lakers eccoti finalmente in pensione a 41 anni, ricco oltre ogni aspettativa e comprensione umana, con la garanzia di aver raggiunto di diritto (specialmente nella concezione della vita qui in America) la libertà più piena. A questo punto puoi fare quello che vuoi senza alcuna preoccupazione. E Kobe ce l’aveva fatta, aveva realizzato questo sogno, desiderio che tutti noi (tutti) aspiriamo a raggiungere. E sapeva di avercela fatta, sapeva che la vita che lo aspettava sarebbe scivolata via in cruise control, una vita serena con la moglie Vanessa e le figlie Natalia, Gianna, Bianca e Capri. Da qui, il suo nuovo sorriso perenne, a ogni incontro con amici, fan e stampa. E adesso, con la sua morte, tutto è perso. Tutto è finito, quella mattina del 26 gennaio 2020 in quel di Calabasas.

Non sono ancora pronto a lasciarlo andare, a pensare che sia davvero morto, proprio lui che mi aveva abituato a ritorni impossibili. Dopo quella fatidica domenica del 26 gennaio, quando alle 10:25 ricevo un messaggio da mio cugino Riccardo (ex cestista) che mi chiede: “Roby, ma è morto Kobe? Cazzo dimmi di no”. Col tempo ho provato ad accettare la scomparsa, ho cercato di abituarmi al fatto che la morte di Kobe ha fatto precipitare L.A. in un’angoscia mai vista, un senso di perdita e depressione latente paragonabile forse ai riots del 1992 di Rodney King, dove lacrime, desolazione e sconfitta avevano sostituito sogni, speranza e sorrisi. 

La morte di Kobe ha lasciato un’intera città in lacrime, tutti storditi e sbigottiti perché chi l’ha visto e vissuto per 20 anni ha capito che con lui se n’è andata anche una parte della nostra vita, che con lui, siamo morti un po’ anche noi. Di sicuro con la sua perdita il mondo è adesso meno piacevole. Kobe aveva ancora tanta roba da fare, da dire, da condividere con tutti noi. E per me personalmente, anno durissimo, dopo papà e Snowy, mio dolce bambino a 4 zampe, adesso mi vedo costretto ad accettare anche la tua perdita. Fuck Kobe, proprio tu dovevi morire? Ancora non me ne capacito. Ancora non ci credo. Ma life goes on, proprio come diceva lui: 

Life is too short to get bogged down and be discouraged 
You have to keep moving, you have to keep going 
Kobe Bryant

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