Il calcio non è una cosa seria. Non lo è, ma tutti lo prendiamo troppo sul serio. Un po’ come la politica, che però dovrebbe esserlo e invece tutti affrontano e affrontiamo con cialtronesca superficialità. Non è un caso che ministri e calciatori siano accomunati dall’abitudine di andare a feste improbabili in locali imbarazzanti, che si chiamino Papeete e simili. E che probabilmente entrambe le categorie prendano le loro decisioni fondamentali tra un cocktail e un ballo scatenato.
Il calcio è però metafora spesso fotografica della società, e se l’Italia in questo momento è populista e rancorosa, non può non esserlo anche questo sport. Lo scopriamo proprio all’interno di una realtà che credevamo un’eccezione, quel Napoli calcio che in un contesto sociale, economico e politico decisamente allo sbando rappresenta(va?) un esempio di serietà, programmazione, comportamenti virtuosi: fino a ieri pomeriggio si parlava di un presidente sì contestato ma ammirato da tutti i tifosi (e colleghi, che lo hanno portato fino all’ECA, non a caso) avversari per il ciclo di alto livello – poche vittorie, è vero, due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana, una semifinale di Europa League, ma molti piazzamenti che sul Golfo si erano visti solo ai tempi di Maradona -; una squadra che neanche un paio di settimane fa abbracciava il proprio tecnico dopo un gol mostrando una coesione rara in questi contesti (già notata nel ciclo Sarri, in cui uno scudetto sfumò tra Milano e Firenze); dirigenti capaci presi dal basso (Giuntoli, uno che nel mercato sa far miracoli, Lombardo che da Sky ha portato in dote una comunicazione muscolare e intelligente, Formisano, che ha portato il marketing azzurro a crescere con gradualità, il mitico Chiavelli e i suoi contratti fiume); un allenatore sempre garbato e arguto capace di dare spessore internazionale a tutta la realtà.
Poi, la bomba. Ammutinamento, i calciatori dopo un volenteroso e deludente 1-1 (quinta partita senza vittorie) dicono a brutto muso al vicepresidente Edo De Laurentiis che no, il ritiro annunciato unilateralmente dal padre Aurelio e contestato pubblicamente nella conferenza stampa di presentazione di Napoli-Salisburgo da Carlo Ancelotti, non lo avrebbero rispettato. Un gesto senza precedenti (persino il famoso Bounty di 30 anni fa di Maradona e soci ebbe più dignità e poi quella squadra se lo poteva permettere, visto il suo rendimento). Silenzio stampa, il mister non parla dopo la partita – nonostante le rigide regole Uefa in merito – e in ritiro a Castel Volturno ci va da solo con lo staff, il boss è già andato via senza passare come spesso fa dagli spogliatoi, il pullman della società è vuoto, nessuna comunicazione ufficiale. Ogni stereotipo sulla Napoli anarchica e ingestibile riaffiora sulle pagine dei giornali, sui social, nei bar, il razzismo radical chic dilaga, il danno d’immagine per chi da anni dimostra il contrario è enorme.
Aurelio De Laurentiis non è Preziosi, Anconetani o Rozzi, a memoria forse il ritiro l’avrà ordinato un paio di volte in 15 anni e in fondo, con l’ultimo mese di inciampi partenopei, chiedere a dei milionari sempre coccolati e a differenza di molti colleghi pagati con puntualità di resistere fino a sabato prossimo lontano dalle famiglie dentro un albergo pieno di comfort, non è proprio da negrieri. Certo, decidere da padrone delle ferriere senza consultare il proprio “capo delle risorse umane”, ovvero l’allenatore, non confrontarsi con la squadra o almeno i propri senatori, non è elegantissimo e di sicuro è irrituale e poco produttivo. Eppure, parliamoci chiaro, in qualsiasi altra azienda in cui i dipendenti non valessero, sul mercato, milioni di euro, oggi avremmo sulla scrivania del buon ADL una serie di lettere di licenziamento da fargli firmare con pochi giudici del lavoro pronti a contestarle, visto il chiaro inadempimento.
Dall’altra parte un uomo abituato a stili diversi (Milano, Parigi, Madrid e persino Monaco di Baviera) è l’unico a comportarsi come si deve: non approva il capo e civilmente, a domanda posta, lo fa notare, ma osserva le regole fino al paradosso di stare in ritiro da solo (tutt’ora). Al vertice di questo triangolo ecco il populismo di lusso di un gruppo di ragazzi viziati e infantili che di fronte alla prima vera difficoltà reagiscono come dei 5stelle qualsiasi, rovesciando il tavolo, rifiutando il rispetto delle regole, non prendendosi le proprie responsabilità. Confermando in pochi minuti ciò che si dice di quel gruppo meraviglioso di amici e sodali, tanto celebrato e amato: che sono immaturi, senza esperienza, acerbi. Il Napoli squadra, con questo gesto, pare capitanato dal brasiliano Allan e con Insigne e Mertens in prima fila, ci ricorda perché “ha perso uno scudetto in albergo”. Incapace di tenere la tensione, di farsi valere nei momenti topici, di tirar fuori gli attributi in campo, invece che farlo fuori, sia esso lo spogliatoio in cui capitano e mister hanno litigato (con tanto di tribuna in Champions per il primo) o in cui una ventina di uomini organizzano un ammutinamento che subito risulta grottesco e indegno di atleti professionisti e professionali.
Poi c’è un capo che alla Salvini è non di rado verbalmente incontinente, verso chi lo contesta reagisce malamente e prende (a volte) decisioni affrettate. O forse no, perché magari è tutto calcolato, voleva far esplodere la bomba e un Ancelotti che si dimette gli consente di puntare agli Allegri, agli Spalletti, ai Mourinho senza il carico dei 20 milioni lordi di euro che dovrebbe a Carletto, che, forse, ora non gode più della stima, del rispetto e del credito che pubblicamente gli ha tributato fino a pochi giorni fa sui giornali. Ma questa è un’altra storia. Ora tutti sembrano solo come Di Maio e Salvini che alleati si sgambettavano, ma insistevano nel dire che avrebbero coperto l’intera legislatura insieme: il presidente fa sapere ufficiosamente che il mister non se ne va, il capitano Insigne nello spogliatoio capitana l’ammutinamento (anche nei confronti dell’allenatore) ma poi in tv dice che si vogliono impegnare ancora di più e che Ancelotti dà loro tanto.
Da tutto questo non va escluso un elemento fondante e fondamentale anche se in questo momento inerte, che questa tensione l’ha alimentata. L’ambiente. Fatto di giornalisti locali spregiudicati (per usare un eufemismo), già mandati a fanculo in Austria dal presidente, e di tifosi ingrati che chiamano l’autore del miracolo napoletano pappone. Che contestano la squadra, l’allenatore (dandogli del pensionato) e il proprietario continuando a comprare merchandising “pezzotto”, a disertare lo stadio, a fingere di essere stati il Barcellona quando prima dell’era De Laurentiis si era falliti e in serie C (Lega Pro, per gli Under 25). Sono quelli del liberi di tifare e dell’andate a lavorare (come ha fatto notare acutamente Massimiliano Gallo su Il Napolista), del papponismo, dei fischi all’unico napoletano titolare, del sarrismo come religione antisistema. Maurizio Sarri assurto a eroe rimpanto, lui, eppure il maggior colpevole del comportamento infantile della squadra è proprio il finto Masaniello che voleva conquistare il Palazzo con 18 facce da cazzo e poi c’è entrato dalla porta di chi gli avrebbe scippato, a suo dire, il sogno, uno che ha alimentato il populismo antipresidenziale persino a distanza e che non ha fatto crescere caratterialmente quel gruppo, rendendolo anzi schiavo persino del suo ricordo. Ma pure il dare la colpa ai governi, pardon ai mister precedenti è populista, quindi chiudiamo qui.
Il calcio non è una cosa seria, come non lo è questo paese grottesco. A salvare il Napoli può riuscire solo Carlo Ancelotti, l’unico mantenutosi lucido, corretto, equidistante. L’unico, non a caso, che è uomo di mondo, perché è andato oltre Cuneo e si è fatto apprezzare in tutta Europa.
Uno che ha dato solidarietà alla squadra, ma in ritiro c’è andato perché è un professionista. Uno che per salvare la società dal pubblico ludibrio, non ha parlato ai media. L’unico che può prendere per le orecchie presidente (che comunque in tutto questo bailamme è quello che non ha colpe, visto che il ritiro “punitivo” è previsto da contratto, ma in fondo parliamo di un sistema in cui nessun dipendente riesci mai a vincolarlo con un pezzo di carta, se se ne vuole andare e svalutare il proprio prezzo danneggiando chi lo paga) e giocatori e dire “ora si fa come dico io, ora tutti muti, pedalate e seguite chi ne sa”. Il problema è che in Italia, in politica come nel calcio, quelli così fanno la fine di Padoan con la Castelli. Rimangono basiti, disorientati, ammutoliti, con la faccia di chi non crede a quello che sente e che vede. E soprattutto rimangono inascoltati.
E allora, populisticamente, da tifoso smetto un attimo i panni del giornalista e vi dico: quei ragazzi li ho amati fino alle 23 di ieri sera, con tutti i loro difetti. Ora andrebbero solo presi a calci nel deretano. Fino a Castel Volturno, esatto. Perché a me, che pago per vederli e li amo incondizionatamente, devono rispetto. A me e a una maglia che ieri hanno insultato e denigrato.