Pare quasi di vederla, persa sotto lo skyline di Minneapolis, mentre si lascia andare a un “Ti spaccherò la faccia se non mi dai il cuore”. Perché, anche se le sue compagne le hanno fatto «una testa tanta con il rap a ogni ora», lei è «intrippatissima con Calcutta. Ma anche con Carl Brave e Franco 126, Canova, Coez, Gazzelle: in America sono loro i miei compagni di viaggio».
Eppure non c’è ombra della quotidianità un po’ depressiva cantata dall’indie di casa nostra nella vita della più forte giocatrice italiana di basket. Nata nel 1996 a Broni, nell’Oltrepò Pavese, a 16 anni è entrata nel circuito professionistico, a 17 l’esordio in nazionale, poi il passaggio a Schio e la vittoria di tre campionati, l’esordio in Eurolega, la massima competizione continentale, e uno strepitoso Europeo con la maglia della nazionale lo scorso giugno.
Poche settimane dopo Cecilia volava negli Stati Uniti, per terminare la stagione con le Minnesota Lynx, una delle 14 squadre che compongono la WNBA. «Non conoscevo quasi gli Stati Uniti, ero stata solo qualche giorno in vacanza a New York. Ho trovato un’organizzazione pazzesca: a ogni partita c’erano 10mila spettatori, titoli di giornale e fotografi pure negli spogliatoi. Girare le arene in cui hanno giocato Kobe e altre leggende è qualcosa che ti fa mancare il fiato», dice.
Ventuno anni recitava la sua carta d’identità, appena in tempo per ordinare una birra o dare un senso alla gita a Las Vegas. Lei, invece, il 5 ottobre si è messa al dito l’anello di campionessa dell’NBA femminile. «Ce lo consegnano alla prima del nuovo anno. Indossarlo? È un accessorio che mi piace, ma non si porta certo in giro per strada».
Per qualcuno un punto d’approdo, per lei è stato il primo piede messo dentro alla lega più ambita. «Sono arrivata in corsa, ho giocato spezzoni di partita. Ora voglio sapere quanto valgo, e se quello è il mio posto». Lo capirà presto, perché il 20 maggio inizia la nuova stagione, che questa volta Cecilia affronta dal principio, con grandi ambizioni. Il biglietto per attraversare l’oceano lo ha acquistato negli scorsi giorni, la partenza è prevista per il 15 all’alba. Neanche il tempo di festeggiare, domenica sera, la vittoria contro Ragusa e un altro campionato italiano con la sua Schio (che ha salutato con una bella lettera, per lei si parla dall’anno prossimo di un’esperienza all’estero, forse in Turchia). Riposare sarà per un’altra vita. «Finora il mio corpo non mi ha dato segnali di stanchezza, nonostante non abbia tregua per 11 mesi all’anno».
Quando la spia si accende, è l’amore per la palla a spicchi a tenerla su: «Se la partita è punto a punto, vengo invasa dall’adrenalina e la stanchezza sparisce. Il problema è che fino alle quattro di notte poi non prendo sonno», racconta Cecilia. Anche se le ragazze non schiacciano – «non mi è mai pesato, mi sono abituata subito all’idea» – e non si insultano sotto canestro – così almeno vorrebbe farci credere Zandalasini –, il suo è basket al livello più alto. «Noi e i maschi facciamo lo stesso sport, con le stesse regole. Me ne frego se qualcuno ci considera di serie B: io gioco perché è la mia passione e la sera torno a casa appagata. Se uno ama questo sport, segue anche le nostre partite. Se vuole le schiacciate, c’è l’All Star Game». E se, ipotesi ancora peggiore, un maschio guardasse le partite solo per la sua bellezza? «Mica mi dà fastidio. Anche a me capita di osservare i colleghi da un punto di vista estetico. Uno figo? Ben Simmons di Philadelphia».
Mi è capitato di sentirmi diversa rispetto alle mie coetanee, ma il basket è una mia scelta. Ed è quello che più mi appaga
D’altra parte, tutto era cominciato con due uomini. Il padre Roberto e il fratello Andrea, con cui da bambina passava ore in cortile a tirare a canestro. «Fino ai 12 anni ho giocato con i ragazzi. Quando li battevo rosicavano un po’, ma erano i miei amichetti e non me l’hanno mai fatto pesare».
Nemmeno per il fatto di essere la più alta della classe, maschi compresi. O di avere fatto esperienze così diverse dai suoi coetanei, con i viaggi ogni pomeriggio a Sesto San Giovanni per gli allenamenti e l’ultimo anno di liceo in Veneto, già stella abbagliante dei nostri parquet. «Mi è capitato di sentirmi diversa, e so di aver perso dei pezzi, dai sabati sera con gli amici alla vita universitaria. Ma è stata una mia scelta», spiega Cecilia.
Che il tempo di fare festa, comunque, lo trova. «Tre settimane fa avevo dei giorni liberi e ho preso una bella storta con i miei amici. Amo il negroni sbagliato, lo berrei a ogni ora». Ora ride di gusto, è molto più a suo agio a parlare delle vasche in giro per Stradella che del suo lavoro. «Non sono una che ha sempre in testa il basket. Quando la gente mi tampina con il campo, mi chiudo. E cerco di cambiare argomento». Magari per parlare di musica – «non ascolto solo Calcutta, eh. Ho un culto per Frank Ocean e i Twenty One Pilots» –, o dell’ultimo film che ha visto. «Si può dire che vado spesso di streaming? Sono una fanatica degli Avengers e di Iron Man. Colpa di papà, che riempiva la casa di Marvel».
Che le piaccia oppure no, Cecilia è oggi il volto del basket femminile in Italia. Una giovanissima ambasciatrice, con tanto di ospitate tv. «Con lo schermo ho un rapporto un po’ così: stare sotto i riflettori non mi fa impazzire. Prima di E Poi C’è Cattelan ero stressatissima, poi è stato divertente».
E il fidanzato? La domanda arriva a tradimento, come fanno le nonne. «No, niente». Ma sarebbe disposta a rinunciare a un anno di campo – o forse alla carriera –, per un figlio? Perché, al contrario dei colleghi maschi, per le donne prima o poi la questione si pone. «Ho 22 anni, ma davvero devo rispondere?». Sì. «Diciamo che se trovassi l’uomo giusto, con cui condividere un progetto di vita, sì. Lo sport non è per sempre, la famiglia lo è».
Continuiamo a parlare del giorno in cui il tempo di fare fischiare le scarpette sui parquet sarà finito. «Non ho idea di cosa farò, ma qualcosa inventerò. Ho sempre avuto i sensi di colpa per non es- sere andata all’università, ma non volevo fare due cose male».
Quali sono, allora, le sue ansie? «Prendere gli aerei, anche se nell’ultimo anno la paura è diventata semplice agitazione. Mi turba non sapere dove vivrò domani: mi sento una nomade, non so più come si faccia a vivere in un luogo solo. Ho un motto: “Somewhere on Earth”. Ma forse ora stiamo esagerando».