C’è un’immagine, anzi una scena che il mondo conserverà nel proprio immaginario, pensando a Edson Arantes do Nascimento detto Pelé. Anzi due. E sono due scene di un film, non di una partita – anche se poi rimarranno anche i suoi gol ai Mondiali, sopra tutti quello in finale del 1970 contro un’Italia che lo vede salire in cielo per un colpo di testa inumano, o la rete in finale contro la Svezia nel 1958, sombrero e tiro a volo appena 18enne, o l’iconica finta sul portiere Mazurkiewicz (con tiro fuori a porta vuota!) –, e questo dice molto del personaggio che il brasiliano è stato, non solo per lo sport.
Il film è Fuga per la vittoria: la prima lo vede alzarsi durante la riunione tattica precedente a quel match mitico (e mitizzato) e avvicinarsi alla lavagna, mostrando con un gessetto come avrebbero dovuto dar palla a lui e poi lui avrebbe pensato a segnare smarcando tutti con irrisoria facilità. E quel gessetto con cui scarabocchia il suo talento con un’ironia giocosa che in realtà non gli era propria davanti a campioni straordinari lì divenuti attori dice tutto di come stesse costruendo la sua immagine di invincibile. La seconda è LA rovesciata, buona la prima e più macchine da presa a riprenderla.
Perché ci dice tanto, questo, del fenomeno Pelé? Perché, e ci rendiamo conto che questo potrà apparire come una bestemmia a molti, il tre volte campione del mondo, l’uomo che ha portato la coppa Rimet definitivamente in Brasile, non è stato il più grande giocatore della storia del calcio. Diego Armando Maradona e Alfredo Di Stefano, per la tecnica quasi sovrannaturale e per la capacità di leadership, Johan Cruijff per la rottura degli schemi individuali e collettivi, persino alcuni momenti di George Best gli sono stati superiori, ma è lui ad aver rappresentato e probabilmente causato, nel bene e nel male, la rivoluzione industriale che ha portato il pallone da gioco e sport a business e marketing, ed è sempre stato lui a inventarsi il futuro con decenni di anticipo. Con un modo di giocare e di stare in “scena” che ora sembra normale ma allora era follia solo ipotizzare. Pelé è stato per questo sport quello che è stata Marilyn Monroe per la società dell’immagine e dello spettacolo, ben oltre il cinema. La rottura di un argine che porta un essere umano e il suo universo di riferimento a essere fenomeno globale. Pelé è stato l’uomo che ha portato questa strana disciplina sportiva, fondata su regole poco razionali e su una conformazione di campo, obiettivi e squadre in campo che spesso non premia il migliore (o comunque permette a Danimarca, Grecia o Leicester di compiere miracoli difficilissimi da ripetere in altri contesti), a essere lo sport che non era il più bello del mondo a essere però il più amato e rilevante.
Se abbiamo avuto Cristiano Ronaldo – valutate voi se questo sia un merito o meno – lo dobbiamo a Pelé. Non solo perché soprattutto nelle soluzioni atletiche e acrobatiche, nelle capacità realizzative e nell’ossessione per i record il portoghese è quello che gli somiglia di più (ma tatticamente e nella capacità di valorizzare altri campioni e la prestazione collettiva è più vicino al Lionel Messi del Barcellona di Pep Guardiola), ma perché il campione brasiliano ha capito subito di essere un marchio, un brand, un moltiplicatore di potenzialità tecniche, tattiche, ma anche economiche. Ci si è chiesti, cantando, se Maradona fosse meglio ‘e Pelé? Domanda oziosa e inutile per i 20 anni che li dividevano, ma anche perché per leadership e talento e modo di stare al mondo tra i due passano le differenze che nel basket esistono tra Michael Jordan e Magic Johnson. Voi sapreste scegliere? E soprattutto volete farlo?
Pelé ha saputo capire il suo posto nel mondo e nell’immaginario collettivo come ha fatto nel campo. Ha deciso di non andarsene mai dal Santos (se non per gli americani Cosmos, operazione di marketing global che nulla ha che vedere con lo sport) non per attaccamento alla maglia ma per un legame economico e di marketing diabolico che avevano intessuto reciprocamente, fatto di record e mancate vittorie in favore di tournée infinite in tutto il mondo, non di rado giocate dal fenomeno in precarie condizioni fisiche (la leggenda del Trap che riuscì a marcarlo nasce, probabilmente, dal fatto che giocò con uno stiramento ai muscoli della gamba destra). A riempire le bacheche preferivano il far traboccare i propri conti in banca in un legame economico che divenne vera e propria joint venture, con compensi per Pelé all’altezza degli accordi dei supercampioni attuali. Alle vittorie, a fare la storia nel suo club come fece con la sua nazionale, preferì il circo dei Santos Globetrotters.
Pelé fu impresa economica prima che calcistica, e da questa capacità di sfruttare se stesso con un’efficienza da amministratore delegato di una multinazionale di successo (e con la stessa capacità di intessere relazioni di potere: da Havelange a Bolsonaro, da Blatter a Kissinger, passando per Putin) si intuisce un’intelligenza strategica che era anche la sua più grande dote in campo. Non solo la tecnica sopraffina unita a un corpo trattato come un tempio, soprattutto durante i Mondiali – di lui e Maradona si disse che erano come Fred Astaire e Ginger Rogers: facevano le stesse cose, ma lei sui tacchi a spillo – lui si inventò e mostrò un talento unico per la sua epoca e per almeno i tre lustri successivi, quello di giocare senza palla quando questa tattica non era neanche teorizzata.
Didì, Vavà e Garrincha, campioni che parlavano la sua stessa lingua, esattamente come Jordan faceva con Pippen e soci, venivano valorizzati dalla capacità di Pelé di capire prima dove potessero andare palla e avversario, anzi ci regalava l’illusione che imponesse con i suoi movimenti scelte obbligate all’una e all’altro. In un mondo come quello del calcio in cui si fa epica e retorica su poesia e istinto, genio e sregolatezza, lui è diventato il simbolo di questo sport grazie a un’intelligenza razionale, dentro e fuori dal campo, al limite (e spesso oltre) del cinismo. Non ha mai smesso di corteggiare il potere – si disse di lui, che sostenendo USA ’94 contro il suo Brasile, si fosse “venduto” alla Coca Cola –, ma nemmeno di credere se stesso un esempio e un modello, fino alla fine, andandosene attorniato dagli affetti così come Maradona o Best o altri, invece, se ne sono andati via soli e abbandonati.
Se ne va un simbolo, e diranno che era amato da tutti. In realtà ha saputo costruire attorno a sé un’autorevolezza e un brand, Pelé, appunto, che lo ha tirato fuori da una povertà che gli faceva calciare calze e stracci intrecciati e pulire scarpe per ore prima di imparare a leggere e scrivere. Leggendaria rimarrà la sua tenacia fino a realizzare il sogno del papà, Dondinho, stroncato da un infortunio al ginocchio. Quella voglia di ribadire di essere il migliore, sempre. Anche in quello era un brand, e per venderlo, un brand, devi convincere tutti di essere qualcosa. Devi lavorare perché questo accada, ogni giorno, con ogni gol e ogni parola. Devi vincere quando tutti ti guardano e, anche grazie a lui, Messico ’70 fu il primo Mondiale che vendette diritti televisivi in tutto il mondo, che fece diventare quella manifestazione la gallina delle uova d’oro di Fifa e sponsor. E permise a Pelé di finire in tutti i salotti, i bar, le baracche e gli attici del mondo, di far uscire il talento e le imprese dei singoli da una tradizione scritta e orale di pochi eletti perché diventasse testimonianza di massa.
Il New York Times l’ha definito “The Global Face of Soccer“. Pelé è stato il primo campione globale e globalizzato, il primo fenomeno di marketing sportivo, il primo ad aver creato e alimentato uno storytelling organico, il primo a essere superiore per fama, carisma, immagine alle sue squadre.
Non lo piangeranno come Senna o Maradona, non sarà così violento e melodrammatico e di pancia il lutto. Ma sarà globalizzato, perfetto nello stile e nelle parole di tutti, un happening dolente senza nulla fuori posto.
Addio Pelé, hai reso grande questo sport cominciando al contempo a rovinarlo. Per questo, in fondo, ci piace ricordarti come attore. Quel sorriso bambino di fronte ai tuoi colleghi, di sport e di set, è lo specchio di un animo che hai nascosto per pudore e riscatto sociale e che un italiano geniale e appassionato, Federico Buffa, ha saputo scorgere e raccontare meglio di tutti.
E non te la prendere se dove sei adesso qualche nordirlandese irriverente ti accoglierà con il proverbiale aforisma che tutti i ragazzi di Belfast ripetono come un mantra: Pelé is good, Maradona is better, Georgie is Best.
Ridi, invece. Come hai fatto nel 2017, ai sorteggi dei gruppi di Russia 2018, felice, tornando bambino quando Diego, dimenticando le vostre liti, ti vide in sedia a rotelle e ti baciò come un fratello, perché il campo da calcio è una livella, e per lui sul prato verde stavate e non con quel Putin che comunque ti affrettavi a tenere per mano. Ridi come a La noche del 10, quando palleggiavi con la tua nemesi ma anche con quello che potevi essere e non sei stato (e lo stesso valeva per il Pibe e quello rende quei secondi di tv struggenti).
Addio Pelé, chi se ne frega chi sia stato il più grande di tutti. Pochi possono dire di aver cambiato un mondo. E tu lo hai fatto. Goditi la tua last dance e per una volta torna Edson.