«Si chiude qui una delle carriere più belle della storia del calcio italiano. Esce dal campo per l’ultima volta forse il calciatore più amato della storia del calcio italiano, sicuramente uno dei più forti di tutti i tempi». Fabio Caressa cerca di omaggiare come può un personaggio enorme per il calcio, per la Serie A, per la Nazionale e non solo. Il pubblico fa lo stesso. È in piedi, applaude. Roberto Baggio, viene acclamato dalla folla di San Siro, alza un braccio verso la curva, saluta tutti, si commuove. Si toglie la fascia di capitano, quella con i colori del Soka Gakkai, la scuola laica buddhista giapponese, e stringe in un abbraccio un’altra grande colonna del nostro calcio, Paolo Maldini. Il capitano del Milan ha quell’empatia, quell’educazione, quei valore, quei modi, quel rispetto sportivo e umano che, in momenti come quello, è l’unica persona che ti viene voglia di abbracciare.
Baggio lascia il campo e ancora una volta ringrazia, saluta i tifosi e si rifugia negli spogliatoi. E lì, insieme al suo manager e al massaggiatore, dirà “finalmente”. Finalmente è finita un’agonia che durava da anni. I tanti, troppi, e gravi infortuni lo hanno devastato, lo hanno massacrato, sin da quando era giovanissimo e aveva appena firmato per la Fiorentina. Quando ho parlato con Antonio Pagni, il fisioterapista che lo segue da quando ha iniziato a vestirsi di Viola, gli ho chiesto perché, secondo alcuni, Baggio avesse vinto poco per il suo talento. Pagni, un uomo tutto d’un pezzo, diretto, un vero toscanaccio, si ferma. Come se quella frase lo avesse colpito al cuore. Prende fiato e mi risponde: “Per uno che ha rischiato di non camminare più in maniera normale, vincere un Pallone d’Oro, una Coppa Uefa, una Coppa Italia e due Scudetti mi sembra tantissimo. Molto più di quello che ci saremmo aspettati”.
Quel finalmente, pronunciato con stanchezza non è una liberazione da una prigionia, non è una mancanza di rispetto nei confronti del calcio, tutt’altro. L’esatto opposto. Baggio pretendeva da se stesso il massimo, ma sapeva che spesso quel massimo era impossibile da raggiungere. Ogni volta che è caduto, che è stato lontano dai campi, ha dovuto lavorare su di sé, sul suo talento, sul suo corpo, si è cambiato, si è trasformato. Da veloce e muscolare, ha dovuto trovare la sua dimensione lenta, ragionata, scaltra e fantasiosa.
Per chi ama il calcio, quel 16 maggio del 2004, è uno di quei ricordi lampadina. Tutti ricordano esattamente dov’erano e cosa stavano facendo. Sono passati sedici anni e in questo tempo il calcio italiano si è trasformato, dalla vittoria Mondiale del 2006 alla caduta oscura e crudele contro la Svezia che non ci ha permesso di giocare l’ultimo campionato del mondo. Un segnale cinico e freddo, ma diretto di quanto il nostro calcio sia cambiato e di quanto quel glorioso e affascinante passato ci abbia lasciato solo i ricordi che per fortuna, ogni tanto possiamo riguardarci in tivù o su YouTube al bisogno.
Quella di Baggio non è stata una carriera perfetta, non è stata una maratona gloriosa, non è stata nemmeno edificante. Baggio ha dovuto lottare, sempre. Contro le sue gambe, contro i tatticismi, contro gli allenatori, contro i risultati. Di certo però la sua carriera è stata emozionante, mai banale, affascinante ed epica. Sì, epica. Baggio è la rappresentazione calcistica dell’eroe. L’eroe che combatte vince, cade, è debole, ferito, ma non si arrende. Lotta, si allena, conquista nuove abilità e motivazioni e poi si supera.
Quell’errore, quello dei Mondiali di Pasadena 94, lo avrebbe potuto consacrare a leggenda. Ma grazie a quello stesso sbaglio Roberto Baggio è diventato mito, con le sue debolezze e con le sue fragilità, a dimostrazione che anche gli dèi sono un po’ umani. Baggio ancora oggi quel maledetto rigore lo sogna e piange. Segno del valore di una grande persona, prima ancora di un grande calciatore.
Baggio è stato un attimo, una scintilla, una luce, un pensiero, un sorriso, un’idea. Baggio è stato metafisica, arte, musica, felicità, purezza.
Roberto Baggio sedici anni fa usciva dal campo per l’ultima volta, da quel giorno il calcio non è più lo stesso, le domeniche sono diverse, l’odore dell’erbetta appena tagliata anche. Roberto Baggio non è il migliore giocatore della storia, ma è l’unico che è riuscito a diventare un sentimento.