Romelu Lukaku, l’inchino del re
Una lunga e sorprendente conversazione con il nuovo centravanti dell'Inter. Che in esclusiva racconta l'arrivo a Milano e la gratitudine verso i tifosi nerazzurri, il suo fermo rifiuto del razzismo (poche ore prima dei Buu di Cagliari), la passione per il rap e Mandela, il rapporto con il manager e mentore Jay-Z
Illustrazione di Alvaro Cecchetti (ALVAANQ)
attenderò
attenderò l’ora rossa dell’ingaggio.
Sopra di me già sibila la freccia
che porterà lontano
lo slancio vertiginoso del successo.
Lo scriveva nel 1955 Antoine-Roger Bolamba, il più importante poeta del Congo nel periodo coloniale. Con i suoi versi voleva rappresentare quello spirito guerriero che sin dai giorni antichi anima le tribù che abitano quella foresta nel cuore dell’Africa. Una terra – come racconta il monumentale Congo di David Van Reybrouck, caso letterario di qualche anno fa – di coltivatori e mercanti, di stregoni, musicisti e soldati. E di re che sanno inchinarsi al loro popolo. Un paio di settimane fa lo ha fatto anche Romelu Lukaku, che è nato 10mila chilometri più a Nord, ma che qui ha ben salde le sue radici. Un moderno Mwata Yamvo, il sovrano tradizionale dello Stato di Lunda.
Tutti i Lukaku sono nati lungo il corso del grande fiume, fino a Roger, il papà del nuovo centravanti dell’Inter. Di professione, chi l’avrebbe mai detto, gioca a pallone, lavoro che conferiva un discreto prestigio in un Paese che da una partita di calcio – il 4 gennaio del 1959, allo stadio Re Baldovino di Léopoldville – e dagli scontri che ne seguirono aveva visto scoccare la scintilla che avrebbe portato all’indipendenza dal Belgio. Roger Menama Lukaku arriva nell’ex madrepatria a 23 anni, chiamato a fare il centravanti in un club di seconda divisione. Si ritira nel 1999, non prima di aver giocato due Coppe d’Africa con la sua nazionale, che ancora per qualche anno si chiamerà Zaire.
Ad Anversa nel 1993 nasce Romelu, che deve il suo nome all’egolatria di papà e alla sua passione per gli acronimi. Un anno dopo arriva Jordan, oggi terzino della Lazio. Da quando ha 17 anni Romelu gioca nella nazionale del Belgio, di cui è il miglior realizzatore di tutti i tempi. A sei anni, già sapeva che sarebbe andata a finire così. “A 16 anni firmerò il mio primo contratto da professionista e diventare il miglior giocatore nella storia del Belgio”, disse ai suoi genitori, come ha raccontato in una strepitosa intervista pubblicata qualche tempo fa su The Player’s Tribune.
Allora il padre aveva appena smesso di giocare, e le cose erano cambiate di colpo per la sua famiglia. “Ricordo mia mamma davanti al frigorifero e il suo sguardo: stava mischiando l’acqua con il latte. Non eravamo poveri, eravamo al verde”, ha detto Rom nella stessa intervista. Dopo un’infanzia di quel tipo, la fame non si spegne tanto facilmente. Ed è più facile ricordarsi da dove si viene. Così, quando gli si chiede perché sottolinei ogni volta le sue origini africane, sorride, e deve correggersi in corsa per dire di sé “belga congolese” e non solo il secondo aggettivo.
Da qui parte la nostra chiacchierata con la nuova Big Thing del calcio italiano, l’acquisto che ha fatto struggere per tutta l’estate i tifosi dell’Inter, fino all’assegno da 65 milioni e a una firma liberatoria sul contratto. Lo incontriamo nella nuovissima sede nerazzurra di Porta Nuova, tra gru che sembrano bussare alle nostre finestre e l’enorme bannerone Not For Everyone, l’ambizioso claim di questa ambiziosa stagione della squadra, su cui ci specchiamo dal palazzo di fronte. Divisa societaria in total black, Romelu si accomoda sullo sgabello. Non è enorme come sembra in tv, almeno rispetto ai grattacieli che ci circondano.
Perché sono così importanti per te le tue radici africane?
Perché sono un fiero congolese… un fiero belga congolese. Sono molto fiero delle mie origini, del posto da cui vengo. A casa con mia mamma parlo la lingua dei miei genitori, il lingala (lingua bantu parlata nella parte Nord-Ovest della Repubblica Democratica del Congo, ndr), e a volte anche con mio figlio. Per me è molto importante tenere vive le mie radici, non dimenticare da dove arrivo.
C’è una figura nella storia del Congo, e più in generale dell’Africa, che ami particolarmente?
Se dovessi dire una personalità storica che mi sarebbe piaciuto incontrare è sicuramente Nelson Mandela, per via della sua storia, della lotta all’Apartheid. Per quanto riguarda il mio Paese d’origine, invece, direi Patrice Lumumba (protagonista dell’indipendenza dal Belgio nel 1960 e primo ministro del Paese per pochi mesi, prima di essere ucciso nell’ambito della feroce lotta per il potere che si era aperta in Congo, ndr), che è stato assassinato, e che avrei tanto voluto conoscere. Vorrei sapere tutto su di lui, su quello per cui ha combattuto.
Patrice Lumumba oggi è il principale eroe nazionale del Congo, ma la sua è stata una storia di grandi passioni e di conflitti. Quella di un uomo non allineato. La definizione rimanda ad altri tempi, e a tutt’altri contesti rispetto a un campo di pallone. Ma finisce per venire presto in mente anche quando si conversa con Romelu Lukaku. Che scala le marce man mano che risponde alle domande, come tutti quelli che hanno delle cose da dire, ma non sono certi di volerlo fare. È timido e risoluto allo stesso tempo, e non trasmette in alcun modo minaccia, nonostante l’esagerazione di muscoli di cui dispone.
Hanno provato sensazioni differenti, però, i difensori di Lecce e Cagliari, le prime due squadre che l’Inter ha affrontato in un avvio di stagione che nessuno ricordava così carico di entusiasmi da parecchio tempo. Nei 180 minuti disputati, Lukaku – voluto in maniera quasi ossessiva dal nuovo coach Antonio Conte e chiamato sin dal numero di maglia, la 9, a rimpiazzare l’ex capitano Mauro Icardi – ha fornito un’approfondita dimostrazione della sua definizione di “partire con il piede giusto”. Ha lottato con ferocia su ogni pallone, ha fatto salire la squadra grazie al fisico statuario, ha cercato e trovato il compagno di reparto Martinez, dispensato assist e pure realizzato due gol. Il primo, all’esordio contro il Lecce in un San Siro stipato e febbrile come per un big match autunnale, è arrivato da dentro l’area, dove Romelu ha spedito in rete il pallone respinto dal portiere su un tiro di Lautaro. Poi, rivolto a quei tifosi già fuori di testa per il loro nuovo omaccione là davanti, si è esibito in un inchino. Pure ruffiano il giusto, il ragazzo.
Cosa volevi dire con quel gesto?
Sin da quando ho firmato per l’Inter, c’era davvero tanta gente eccitata dall’idea del mio arrivo. Mi contattavano, mi mandavano messaggi diretti su Instagram, quando sono arrivato a Milano per la prima volta da Bruxelles c’era un sacco di gente che era lì per me. Da subito mi hanno incoraggiato, hanno gridato il mio nome. Con quel gesto volevo semplicemente ringraziarli per il supporto che mi hanno dato da quando sono qua.
L’Inter e Milano sono solo una scelta di sport, oppure una scelta di vita?
Prima di tutto la mia è una decisione che riguarda lo sport. L’Inter era il club per cui volevo giocare in Italia e il coach è stato un elemento importante nella mia scelta, oltre al fatto che sapevo che la squadra aveva degli ottimi giocatori. Ma anche da un punto di vista familiare è stata una buona scelta, perché mio fratello è già qui. Penso che l’Italia sia un bel posto in cui vivere, sono una persona a cui piace scoprire diverse culture: non solo giocare in differenti campionati di calcio, ma apprendere culture differenti. Per questo sono molto felice di essere qua.
Il claim di questa stagione dell’Inter è Not for Everyone. Anche Romelu Lukaku non è per tutti?
No, dai, io vado bene per tutti (ride). Però lo slogan secondo me è perfetto per il club, perché i tifosi dell’Inter sono estremamente fedeli, e non è una cosa da tutti. Il tifo per questi colori si tramanda di generazione in generazione: ogni partita lo stadio è pieno, sempre le stesse persone sugli stessi seggiolini. Ed è bellissimo fare parte di tutto ciò, di un club amato in maniera così sincera dalla propria gente.
C’è un altro slogan dell’Inter che, purtroppo, è risultato subito particolarmente adatto alla figura di Lukaku. BUU, ossia Brothers Universally United, “Fratelli Universalmente Uniti”, il titolo con cui negli scorsi mesi il club presieduto da Steven Zhang ha lanciato una massiccia campagna antirazzista, dopo i fischi che una parte dello stadio aveva riservato al difensore del Napoli Koulibaly.
Domenica scorsa a Cagliari – dove già gli juventini Kean e Matuidi avevano subito lo stesso trattamento – la vergogna è toccata a Romelu, bersagliato dagli ululati dei tifosi sardi dopo il gol su calcio di rigore che ha consegnato la seconda vittoria consecutiva alla squadra. All’indomani della sfida Lukaku ha parlato attraverso il suo seguitissimo profilo Instagram: “Molti giocatori nell’ultimo mese hanno subito insulti razzisti. È successo anche a me ieri. Il calcio è un gioco amato da tutti e non dovremmo accettare alcuna forma di discriminazione che possa far vergognare il nostro sport”, le sue parole.
Bene, bravo, bis. Evviva i giocatori con una coscienza e il coraggio di esprimere se stessi e la propria indignazione. A smorzare il nostro entusiasmo, a strettissimo giro, il comunicato diffuso dalla Curva Nord dell’Inter, rivolta al nuovo attaccante nerazzurro. “Ci spiace molto che tu abbia pensato che quanto accaduto a Cagliari sia stato razzismo. In Italia usiamo certi modi solo per aiutare la squadra e cercare di rendere nervosi gli avversari non per razzismo ma per farli sbagliare”, c’era scritto, con notevole sprezzo del ridicolo.
Di tutto questo, con uno straordinario tempismo e un pizzico di menagramismo – o forse facile preveggenza, ahinoi –, abbiamo parlato con Romelu nella nostra conversazione, che è avvenuta appena poche ore prima del match incriminato contro il Cagliari.
Sei preoccupato dal razzismo nel calcio italiano?
Penso che sia stata una grande cosa da parte del club lanciare una campagna come BUU – Brothers Universally United. E se vorranno il mio contributo, glielo darò. Se dovessi sentire cori razzisti, risponderò. Però i miei pensieri oggi sono sul campo da calcio, per aiutare i miei compagni a vincere.
Pensi che un giocatore debba lasciare il campo in caso di razzismo durante una partita?
No. Ma penso che debba prendere posizione, quello sì. Perché il razzismo è qualcosa a cui bisogna rispondere. Guarda l’Inghilterra, dove nelle ultime settimane sono successe diverse cose a giocatori del Manchester United e del Chelsea: la questione va affrontata. Il calcio è qualcosa di internazionale, multiculturale. Se vuoi davvero attirare i migliori giocatori del mondo, devi accoglierli a braccia aperte, perché a loro volta gli atleti devono adattarsi alla cultura in cui arrivano. Quindi è fondamentale non discriminare, e apprezzare quello che uno porta con la sua presenza.
Dietro di noi luccicano le coppe della sala dei trofei nerazzurri, l’angolo più scenico di una nuova sede che sta nascendo giorno dopo giorno, in un quartiere che a ogni alba ritrovi un po’ cambiato. Ci sono la Champions del 2010, e ci mancherebbe altro, e il Mondiale per Club, ci sono le grandi orecchie delle vecchie Coppe dei Campioni di Herrera e Facchetti, i 15 chili e i 65 centimetri di altezza di quella specie di ecomostro che era la Coppa Uefa, altro dolcissimo ricordo delle generazioni recenti. Romelu gli lancia un’occhiata, di tanto in tanto.
Se l’Inter lo ha preso, oltre che per non fare incazzare mister Conte, è per tornare per lo meno a fare certi sogni, grazie alle sue reti. Quelle non sono mai mancate. Un gol ogni due partite di media con l’Anderlecht, il suo primo club importante, quando era ancora un ragazzino, poi il passaggio al Chelsea, che a 18 anni aveva già fiutato che in quel teenager che somiglia vagamente a Drogba c’era qualcosa di speciale. Da lì, sempre in Inghilterra, non si è più fermato. Una settantina di gol in quattro anni all’Everton, 28 in due al Manchester United, prima che il rapporto con i Diavoli Rossi si incrinasse.
Ora è qua, e non se la sente di promettere nuovi inchini ai suoi tifosi. Ma solo perché «la prossima volta cercherò di fare un’esultanza che la gente possa riconoscere come la mia, poi di certo l’inchino ritornerà». Il suo sorriso si schiude del tutto, perché ha appena scoperto che prima dei saluti si parlerà di musica, l’altra sua grande passione.
Allora, sappiamo che tu sei un produttore musicale, fai pezzi rap. Ce ne parli?
Sono un dj, ma per divertimento. Avevo un mio dj set in casa a Manchester, però qua vivo in appartamento, quindi non so con i vicini e tutto il resto se potrò ancora farlo.
Vuoi dire che la tua carriera musicale è a rischio qui a Milano…
Eh, sì. Però ho un altro piccolo dj set che ora è nell’appartamento di mio fratello. Se i vicini non verranno a bussare alla mia porta, lo porterò da me e continuerò a mixare.
Ma canti anche? Ti sentiremo rappare?
No! A me piace fare il dj, mixare i brani. C’è un mio caro amico belga che rappa, si chiama The Color Grey: è stato lui a insegnarmi a produrre basi e mixare. Il rap è una figata, ma a me la cosa che interessa di più è il suono. Per me i beat sono tutto.
Qual è il primo pezzo di una tua ipotetica playlist?
Victory Lap di Nipsey Hussle, un rapper che è stato assassinato a Los Angeles lo scorso marzo. Quello era il suo primo album in assoluto, a 33 anni, ed è pieno di significato. Ha fatto moltissimo per la sua comunità di South Central, soprattutto nella quartiere di Crenshaw. Tutti gli abitanti della zona, magari usciti dal carcere, andavano da lui e li aiutava a trovare un posto nella società, un lavoro. Lì ha messo in piedi un negozio di vestiti, un barbiere, un fast food. E lì purtroppo è stato tragicamente assassinato. Ascoltare la sua musica, il modo in cui parla di se stesso e di come è diventato qualcuno, per me è fonte di grande ispirazione. Perché lui ha sconfitto la sorte, ha avuto mille alti e bassi, ma è uno dei pochi rapper che ha realizzato tutto da sé, possedeva persino tutti i master delle sue canzoni. Era un grande imprenditore e ha fatto cose speciali per la sua comunità e la sua gente. Non tante persone possono dire la stessa cosa: riposi in pace.
E Jay-Z trova posto nel tuo dj set?
Certamente. Per me lui è tutto, è The Guy. Lui è una super testa, ed è un mio grande amico. Dopo l’esordio con l’Inter ha dichiarato di essere molto felice per me. Spero che lanci presto un nuovo progetto musicale, perché negli ultimi sei o sette mesi tanti rapper hanno fatto uscire nuovi album e ora è arrivato il suo momento. Penso che stia analizzando esattamente come si muove la musica oggi, e poi uscirà di sicuro con qualcosa di potente.
Tu fai parte di Roc Nation, l’agenzia di Jay-Z che si occupa di curare management e marketing di diversi artisti e sportivi. Quando abbiamo letto che Lukaku e Jay-Z lavoravano assieme, tutti in Italia abbiamo detto “wow, che cosa strana”. Puoi spiegare meglio il vostro rapporto?
Lui mi aiuta con tutto ciò che non è sport, visto che da quel punto di vista c’è il mio agente Federico Pastorello. Jay-Z si occupa del mio marketing, e di tutto quello che può aiutarmi a diventare un business man. Tra di noi parliamo spesso di vita in generale, mi dà consigli su come posso migliorarmi fuori dal campo. Il suo contributo è grande, e sono contento di fare parte della Roc Nation Family.
Per chiudere: è più duro il rap game o il campionato di Serie A?
Il campionato italiano, perché segnare un gol è sempre una battaglia (ride).