Quando a casa Martino è arrivata una border collie, il papà di Ludovica l’ha voluta chiamare Eva, come l’amatissimo personaggio che lei interpreta in SKAM Italia: «“Ma sei matto?”, gli ho detto», mi racconta la stessa Ludovica al telefono mentre sta andando su un set ancora top secret. «Ti pare che io vado al parco e urlo: “Eva, Eva”?! All’inizio la chiamavo a bassa voce perché mi vergognavo, ora per fortuna ormai è una cosa sdoganata. Ma ancora rido perché magari i fan non sanno che il mio nome è Ludovica, e così sembra che fischi a me stessa. Ma niente, lui ha insistito, perché pure la cucciola è roscetta».
Rossa però Ludovica non lo sarà più, almeno per un pochino. E questa è una notizia. Ci abbiamo fatto caso alla conferenza stampa per Carosello Carosone (in onda giovedì 18 marzo su Rai 1, non perdetelo, domani vi diremo perché): i capelli dell’attrice erano quasi neri. Non può dire nulla del progetto a cui sta lavorando, ma afferma che il nuovo colore non è stato uno shock: «Mi piace, è figo, è la prima volta che faccio un cambiamento del genere, perché mia nonna è parrucchiera e me l’ha sempre impedito. Ma variare ci sta, è un bell’azzardo».
Dopo il successo di SKAM Italia, il 2020-2021 è stato l’anno di Ludovica: «Pandemia a parte, un anno di crescita e di bei progetti», conferma lei. Da Sotto il sole di Riccione per Netflix – «Per me è stato un onore, perché Enrico e Carlo Vanzina sono un pezzo di storia, sono molto orgogliosa. Poi Enrico è proprio giovane dentro, un creativo, ci lasciava liberi di sperimentare, di giocare» – a Carosello Carosone, dove interpreta Lita, la moglie di Renato. Partiamo da qui.
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È il primo biopic della tua vita: come l’hai affrontato?
Confrontarsi con qualcuno realmente esistito comporta sempre il dover rendere una certa giustizia a quella persona. C’erano poche informazioni su Lita, per me è stato molto più complicato, nonostante l’aiuto del regista Lucio Pellegrini, degli sceneggiatori e delle storie che mi ha raccontato Sydney Sibilia, che ha intervistato personalmente il figlio di Renato e di Lita, Pino. Ho cercato di ricostruire la vita di questa donna, magari non ci sarò riuscita in pieno, nel senso che il materiale è quasi nullo e bisogna andare anche di fantasia, però speriamo di essere riusciti a raccontare almeno un po’ di quello che era: una donna anacronistica per il suo tempo, una ballerina di swing che ha lasciato la sua terra natale prestissimo, un “antico-moderno”, com’era poi anche lo stesso Carosone.
E poi Lita è una ragazza-madre, quindi è anche più grande rispetto ai personaggi che hai impersonato finora, addirittura con la responsabilità di un figlio.
Sono passata dall’interpretare la figlia all’interpretare la madre. Meglio. Ho amato tutti i prodotti che ho fatto, sono stati scelti con molta cura e convinzione, come SKAM Italia che adoro e che è stato un successo incredibile… Però sono contenta che adesso mi si veda anche sotto un’altra luce, che dai ruoli di figlia passi a quelli di madre: è un bell’upgrade che serviva alla mia carriera, sì, ma soprattutto a me personalmente, perché è divertente cambiare, è molto entusiasmante spingersi sempre oltre, detesto la comfort zone.
Come sei entrata in questo bellissimo microcosmo napoletano con Eduardo Scarpetta Jr., che interpreta Carosone, e Vincenzo Nemolato, alias Gegè Di Giacomo?
Sono amici da un sacco di anni, c’era già molta sintonia fra loro. E devo dire che io mi sono integrata perfettamente perché hanno un’ironia pazzesca, si prendono molto poco sul serio. Vincenzo è il mio adorato, mi fa fare delle risate pazzesche, poi è una persona estremamente intelligente, brillante, capace. Eduardo è il compagno di lavoro perfetto, una delle prime volte in cui ho beccato un partner veramente professionale, più di me, che ce ne vuole (ride). Era puntuale, preciso, sapeva sempre tutte le battute, aveva la storia in testa, era davvero sul pezzo. E mi sono trovata benissimo perché a me, da maniaca del controllo, piace avere una controparte che sa quello che sta facendo.
La sfida più grande del ruolo di Lita? Perché c’è anche tutta la componente che riguarda il ballo…
Diciamo che sono un piccolo elefantino poco aggraziato per quanto riguarda la danza, per me è stato molto difficile: Lita era prima ballerina del suo corpo di ballo e ballerina di swing, una combo micidiale pronta ad esplodermi in mano. E poi i tempi di questo film sono stati strettissimi, sono stata chiamata per il provino poco tempo prima delle riprese. È stato tosto ingranare sia sullo swing, dove ho avuto una coach bravissima, che sul dialetto, perché comunque il personaggio era di origini veneziane e Lucio (Pellegrini, nda) mi ha chiesto di decidere insieme se farla in dizione o darle un generico accento del Nord. Lita era nata a Venezia, ma aveva vissuto ovunque: Napoli, Milano, Roma, Massaua. E visto che se n’era andata da casa molto giovane, l’accento non doveva essere molto netto, poteva essere generico, del Nord, e allora ho acconsentito a farlo senza coach perché non c’erano i tempi. Ma sono felice perché Lucio è stato contento del risultato: è stata dura, ma alla fine ce la siamo portata a casa.
Piccola parentesi tra cinema e tv: con Rocco Fasano parlavamo del fatto che voi ragazzi di SKAM Italia avete colonizzato l’ecosistema del videoclip italiano. Tu hai fatto il video di Ultimo, 22 settembre, con Marco Giallini. Racconta.
Ultimo ed io l’abbiamo fatto in amicizia, in pandemia ci siamo fatti i complimenti a vicenda – lui perché aveva visto SKAM, io perché amo le sue canzoni –, ci siamo conosciuti, abbiamo iniziato a chiacchierare e un giorno mi ha chiamata per chiedermi se mi andava di fare il suo videoclip: “Ma certo, che figo”. Niccolò si immaginava questo video di me in una stanza, che attraverso una serie di emozioni, poi ci siamo incontrati ha iniziato a raccontarmi tutto e cantarmi il pezzo. Alla fine mi fa: “Senti Ludo, ma se ci metto Marco Giallini a fare tuo padre?”. Io adoro Marco. Ci siamo divertiti da pazzi, perché noi tre abbiamo una linea comune, non so bene quale sia, ma c’è qualcosa che ci connette. Davvero per me non è stato un lavoro, è stata un po’ come la tombolata di Natale con gli amici.
E arriviamo a SKAM Italia: con voi è nato uno nuovo star system. Che cosa ti ha dato la serie?
Dal punto di vista professionale, SKAM mi ha dato la possibilità di iniziare a fare questo mestiere seriamente, di approcciarmi a un ruolo da protagonista, perché prima avevo già lavorato, avevo girato Tutto può succedere sempre con Lucio Pellegrini, il regista di Carosone, e qualche altra piccola cosa, ma non avevo mai avuto la possibilità di sperimentare davvero cosa volesse dire FARE questo lavoro. SKAM mi ha dato proprio la spinta, quella cosa tutti gli attori cercano: un po’ di fiducia e l’opportunità di cominciare. Questo è un lavoro difficile da mantenere, però è altrettanto difficile iniziare: devi avere qualcuno che creda in te, e per questo sarò sempre grata a Ludovico Bessegato (lo showrunner di SKAM Italia, nda). Dopo SKAM c’è stata una concatenazione di fattori che hanno fatto sì che io iniziassi a lavorare sempre, a catena, non mi fermo praticamente mai. Però è grazie a quella serie, se non l’avessi fatta probabilmente la mia vita sarebbe andata in modo diverso. E poi dal punto di vista personale c’era una bella squadra, il cast, ma anche la troupe: io mi sento ancora con il microfonista, con la truccatrice che è una delle mie migliori amiche, col direttore della fotografia… C’è un dietro le quinte che ci ha accompagnato per quattro stagioni a cui sono molto legata, SKAM Italia per me è un prodotto familiare.
C’è qualcosa che ti è rimasto impresso a livello di reazioni dei fan?
Ci sono arrivati tantissimi messaggi, che sono il mezzo di comunicazione dei ragazzi, e uno in particolare mi ha commossa: durante la prima ondata della pandemia avevo pubblicato nelle storie di Instagram una foto delle bare che uscivano da Bergamo. E un ragazzo mi ha scritto: “Lì dentro c’è mio padre e grazie a SKAM riesco a non pensarci per almeno due ore al giorno”. Era un messaggio molto lungo, molto bello e io mi sono emozionata da morire, vista anche la fragilità di tutti in quei momenti. Ho pensato: “Riesco a fare qualcosa pur non facendo niente se non il mio lavoro, perché poi è lo spettatore che decide quant’è importante qualcosa per lui”.
Se mai ci fosse una quinta stagione di SKAM Italia, tu torneresti nei panni di Eva?
Eh certo, che lascio la mia barca? Per ora non se n’è mai discusso. Ma se ce lo proponessero ovvio, subito.
Parlando di quello che vedremo in futuro: come ti ci sei trovata a lavorare a Security con Peter Chelsom?
I suoi figli sono fan di SKAM Italia e gli hanno detto: “Papà, perché non le fai un provino?”. Gli hanno rotto talmente tanto le scatole che alla fine Peter si è guardato tutta la serie e mi ha chiamato senza farmi fare l’audizione: “Tu hai quella fragilità che è perfetta per il mio personaggio, lo vuoi interpretare?”. Lui è il regista di Shall We Dance?, di Serendipity, di The Space Between Us, poi il direttore della fotografia è Mauro Fiore, premio Oscar per Avatar, capisci? Abbiamo fatto un incontro conoscitivo, non sapevo che mi avrebbe proposto il ruolo. Quindi appena me l’ha detto sono scoppiata a piangere. E Peter è scoppiato a piangere appresso a me, una scena assurda.
E poi?
Sono stata la prima ad essere scelta del cast, ho iniziato a studiarmi il personaggio, a leggermi il libro sei mesi prima di girare e sono arrivata con una preparazione anche fisica, tra palestra e piscina. Devo dire che è stato il film in cui sono arrivata più pronta. Poi Peter è bravissimo, avevamo scene lunghissime con un sacco di movimenti e lui un mese prima ha affittato un teatro di posa e ci ha fatto costruire tutto esattamente come sarebbe stato sul set. Per la prima volta non ero spaesata, sapevo perfettamente cosa dovevo fare, è stato super utile. E non l’avevo mai fatto prima qui in Italia.
L’altro tuo progetto in uscita a breve è Mio fratello, mia sorella.
Roberto Capucci è stata la persona che mi ha fatto fare più provini nella mia vita, ne ho fatti cinque per questo ruolo, non ne potevo più (ride). Però è un regista formidabile, uno di quelli che vogliono essere sicuri delle loro scelte, dice che a un certo punto non è stato lui a scegliermi, ma il film. È un romanzo familiare in cui interpreto Carolina, la figlia di Claudia Pandolfi, una dramedy divertente ma con parti emozionanti e argomenti molto sensibili. Ho sempre voluto approfondire un racconto di questo tipo, semplice, pulito, senza voler dimostrare al mondo chissà che. Ma è un film molto prezioso.
C’è un consiglio che ti hanno dato colleghi più grandi e che ti è rimasto?
Stefano Accorsi (con il quale ha girato Il campione, nda) mi ha detto di accettare sempre e solo sceneggiature forti, perché se il copione non è incisivo sul set non avvengono le magie. Claudia Pandolfi poi è stata proprio materna, mi ha dato un sacco di consigli a metà tra una mamma e una sorella, l’ho adorata, è un’attrice estremamente generosa, molto sincera. E Marco D’Amore mi fa troppo ridere, è un cazzone fantastico, interpreta mio padre nel film di Chelsom. Altro che consigli, a volte non riuscivo manco a stare seria in scena. Lui ha questa capacità di essere se stesso, di essere divertentissimo e fare un sacco di battute e poi entrare nel personaggio in un secondo.
Con chi ti piacerebbe lavorare adesso?
Con Matteo Garrone, adoro la sua arte. Perché proprio questo è: arte.
Ma tu quando l’hai deciso che avresti fatto l’attrice?
Non ho avuto il classico momento della rivelazione. Ho iniziato a studiare recitazione quando avevo 14 anni in una scuola e poi mia madre non voleva che mi approcciassi al mondo del cinema, “meglio se fai qualcosa di più normale”, diceva. Poi piano piano, verso i 18 anni, ho iniziato a vincere i primi provini, mi sono presa un’agenzia e ho iniziato a ingranare. Ma prima stavo nel buio più totale, ho fatto il test di ingresso a Medicina, poi mi sono laureata in Interpretariato e traduzione. A me piaceva fare l’attrice, ma mica era un lavoro per me. Anche adesso quando mi chiedono: “Che cosa fai?” e io rispondo “L’attrice”, spesso replicano: “Dai, sul serio, che lavoro fai?”. E io penso: “Ma lo faccio tutti i giorni!”. Però pure nel mio immaginario era così, perché è un lavoro che non ti fa credere fino in fondo di poterlo fare, non ti senti mai autorizzato a dire che sei un attore. E non è giusto. Mi dicevo: io recito, mi piace e mi diverto, ma come altri giocano a tennis o fanno nuoto. Figurati se qualcuno ti paga per fare questa cosa. E invece.