‘Maniac’ e la formula magica di Fukunaga | Rolling Stone Italia
Interviste

‘Maniac’ e la formula magica di Fukunaga

Dopo aver rivoluzionato le serie tv con ‘True Detective’, il regista torna su Netflix insieme a Jonah Hill e a Emma Stone

‘Maniac’ e la formula magica di Fukunaga

Emma Stone in ‘Maniac’. Foto press

Ride, Cary Fukunaga. «Ci ho provato ma ero sulla strada sbagliata, non andavo proprio benissimo». Non era abbastanza bravo per diventare uno snowboarder professionista: «Fare film è sempre stato il mio piano B». Alla fine con la tavola gli è andata male, mi racconta al telefono tra un volo e l’altro, e a 23 anni ha deciso di buttarsi nello show-biz a tempo pieno. Per fortuna, perché in caso contrario non avremmo potuto vedere True Detective, la serie tv che nel 2014 ha cambiato le regole delle serie tv e del cinema: «Mi ha davvero scioccato che sia diventata così popolare, per me era un crime-noir crudo e molto solido nella trama, tutto qui».

O perlomeno, non avremmo potuto impazzire per quella visionarietà e quel mood con cui Fukunaga ha diretto ogni sequenza: «Credo che il momento abbia giocato un ruolo importante nel successo dello show, quando è uscito mancavano altri prodotti, per cui le persone hanno iniziato a parlarne». Questo naturalmente oltre alle performance straordinarie di Matthew McConaughey e Woody Harrelson, precisa. Rust Cohle, il detective interpretato da McConaughey, è un personaggio iconico, da antologia: «Non c’era nulla di rivoluzionario, se non l’intuizione di far recitare grandi attori per la tv. Star del genere attirano parecchio l’attenzione». Come sceglie i suoi protagonisti? «Cerco sempre qualcuno con carisma e un’energia magica, che rendano la storia degna di essere raccontata». Fukunaga poi non ha lavorato alla seconda e alla terza stagione di True Detective: «Ero troppo impegnato, stavo scrivendo It e preparando Beasts of No Nation e questo nuovo show».

Maniac | Trailer | Netflix Italia

“Questo nuovo show”, che segna il ritorno del regista al piccolo schermo, si chiama Maniac, è basato su una serie norvegese e, per dirla come il personaggio di Emma Stone: “This is some multi-reality brain magic shit”, che in italiano è praticamente impossibile da tradurre, ma rende molto bene l’idea. Annie Landsberg (Stone) e Owen Milgrim (Jonah Hill) sono due estranei che vengono coinvolti in una sperimentazione farmaceutica e si ritrovano in una serie di bizzarre e fervide esperienze oniriche, tipo lei con le orecchie da elfo, per dirne una. «Il mio manager Michael Sugar, che è anche un produttore nominato agli Oscar, aveva per le mani questo format, un’opportunità unica per giocare con generi diversi come avevo sempre immaginato. Mi ha anche detto che avrei potuto scegliere qualsiasi attore desiderassi. “Voglio Emma Stone, come possiamo fare?”».

Cary Fukunaga (1977). Foto di Mark Seliger

Quando l’ha incontrata, Fukunaga non aveva pensato a come sarebbe stato lo show: «”Viviamo entrambi a New York, voglio fare qualcosa qui e divertirmi”, le ho detto, perché dopo True Detective sapevo che i due attori principali sentono la responsabilità di condividere un carico e, a volte, diventa estenuante». Poi ha chiesto alla Stone che cosa ne pensasse di una reunion con Jonah Hill, dopo che i due avevano lavorato insieme nella commedia del 2007 Superbad: «“Videochiamiamolo subito!”, ha risposto lei. Due minuti dopo eravamo in un bar a cercare di convincere Jonah a fare una serie di cui non sapeva- mo ancora nulla. E lui: “Ci sto!”».

Così Fukunaga, insieme allo scrittore Patrick Somerville, ha trasformato la ragazza d’oro di Hollywood in una tossica disincantata e senza scopo, fissata sui rapporti interrotti con la madre e la sorella: «Ho provato a renderla un po’ ragazzaccio, come in Birdman, è bella tosta in quel film», e Hill nel quinto figlio di ricchi industriali, perennemente in lotta con una diagnosi di schizofrenia. «Più che sulla mania, volevo che si focalizzasse tutto sulla solitudine, sull’isolamento e sul conflitto per stabilire una connessione».

Ma che cosa guarda l’uomo che ha alzato lo standard della narrativa per la tv tanto da dare le vertigini? «Game of Thrones, Westworld, Master of None di Aziz Ansari, che l’anno scorso è stato di gran lunga lo show migliore, e poi documentari o serie true-crime, tipo Wild Wild Country, Evil Genius. È dura stare al passo!». Fukunaga è anche colui che, con Beasts of No Nation, primo lungometraggio prodotto e distribuito da Netflix (passato in concorso alla 72a Mostra del Cinema), ha iniziato a scuotere dalle fondamenta il mercato cinematografico: «Venezia è aperta ai progetti di Netflix, al contrario di Cannes: è triste quando i film fatti in modo diverso vengono esclusi. C’è un gioco economico in ballo, guidato da questi grandi di Hollywood che vogliono imporre la loro influenza. Non c’è più posto per il drama sul grande schermo, magari ci sono opportunità per film come Chiamami col tuo nome, così potente da spingere tante persone a comprare il biglietto. Ma quante migliaia di pellicole non ci riescono?».

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