‘Stranger Things 3’, un’estate Sottosopra
Siamo stati ad Atlanta, per una visita esclusiva sul set della serie che ha capitalizzato la nostalgia per gli anni '80, diventando fenomeno di costume. Abbiamo incontrato i protagonisti e, soprattutto, ci siamo fatti un giro nel nuovo, sfavillante centro commerciale di Hawkins
Non c’è un modo facile e meno doloroso (per voi) di dirlo, quindi lo scriverò e basta: sono stata sul set della terza stagione di Stranger Things. E quando ho postato una foto – niente di che, un semplice cartello con scritto “Welcome to Hawkins”, l’unica cosa che avevamo il permesso di fotografare – su Instagram mi sono arrivati il triplo di messaggi del giorno del mio matrimonio, gente che non sentivo da 10 anni. No, non ho degli amici di merda. C’è qualcosa nel DNA di questo show che suscita un fervore quasi irrazionale. È il fenomeno Stranger Things, baby. Perché non puoi più parlare solo di serie tv se l’outfit che indossa Undici – abito rosa, calze lunghe di spugna e parrucca bionda – quando uccide il Demogorgone è il costume di Halloween più gettonato degli ultimi anni. O se in giro per il mondo spuntano murales che chiedono giustizia per Barb, personaggio-ossessione dei fan dopo il destino terribile incontrato nel Sottosopra. O, e questa è roba grossa, se Mediaset, il più grande gruppo televisivo privato italiano, la quintessenza della tv generalista, programma una maratona di film Eighties in onore dell’uscita di un titolo cult del gigante dello streaming. Altro che compromesso storico.
Sul pianeta Terra la cittadina di Hawkins, Indiana, si chiama Atlanta, Georgia. È qui che arrivo a insieme a una ventina di giornalisti da tutto il mondo, più o meno uno per Paese, a parte ovviamente qualche americano e, cinque (sì, cinque) colleghi giapponesi. Che improvvisamente diventano le star della set visit al pari dei ragazzini protagonisti della serie. Invitare una massiccia delegazione del “popolo che fotografa tutto” sul set più blindato della storia comporta dei rischi. Non tanto per la macchina anti-spoiler di Netflix che è a prova di bomba, quanto per la salute mentale dei colleghi del Sol Levante.
La prima tappa è agli Screen Gems Studios: nei nuovi episodi, Stranger prende una piega decisamente più fashion e la costumista Amy Parris ha preparato un selezione di abiti e accessori anni ’80 con cui imbellettarci e, soprattutto, fare foto. Fiocchi giganti, giacche di lurex, spallotti imbottiti. Questo è l’unico momento in cui posso dire di aver visto i giornalisti giapponesi davvero felici. Subito dopo entriamo nel seminterrato della famiglia Wheeler, il cuore della prima stagione. C’è il tavolo su cui Mike, Lucas, Dustin e Will giocano a Dungeons & Dragons, ci sono le sedie spaiate, la coperta all’uncinetto sul divano imbottito, la tv in bianco e nero e il walkie talkie con cui Mike parla con Undici. L’ufficio stampa di Netflix pronuncia un sorridente ma minacciosissimo “No photo”. I colleghi giapponesi si spengono all’improvviso.
Non si riaccendono nemmeno quando entriamo nel capanno in cui lo sceriffo Hopper nasconde Undici nella seconda stagione, costruito in legno immacolato e poi invecchiato, scheggiato, graffiato dal team di decoratori e scenografi. Dentro, a parte qualche confezione di waffle, ci sono indizi che in qualche modo spoilerano i nuovi episodi, quindi il “No photo” diventa ancora più imperativo.
Ad Atlanta è ottobre 2018, ma nella cronologia di Stranger Things siamo nell’estate del 1985: non è passato nemmeno un anno dalla seconda stagione, quando Dustin inconsapevolmente adottava un baby Demogorgone come animaletto domestico e Undici attraversava il suo momento punk. Eppure è cambiato tutto: la cittadina più cupa della tv deve fare i conti con l’arrivo di un nuovo, sfavillante centro commerciale.
Il pulmino à la gruppo vacanze Piemonte ci catapulta dentro lo Starcourt Mall, un’impressionante architettura appena fuori Atlanta, che grida anni ’80 a ogni centimetro senza mai cadere nella parodia: le luci al neon, il cinema con Ritorno al futuro e Il giorno degli zombi in cartellone, il vinile di The Dream of the Blue Turtles, il primo album solista di Sting nel negozio di musica, walkman e giradischi in quello di elettrodomestici. E, immancabile, la pubblicità del prossimo libro di Stephen King, Skeleton Crew, nella vetrina della libreria. Ogni negozio è ricostruito con una perfezione vicina allo sfinimento, al punto che siamo tutti frastornati: forse anziché prendere il famigerato pulmino siamo saliti senza accorgercene sulla DeLorean di Doc. L’amore di Stranger Things per il materiale da cui trae ispirazione – King e Spielberg su tutti – rende la sua nostalgia affettuosa, accogliente e inclusiva, e l’ossessione per l’autenticità di ogni dettaglio è folle, quasi pedante, ma regala quel realismo che contribuisce in modo essenziale all’ambientazione della serie. Ovviamente l’ufficio stampa torna a cantare il ritornello “no photo”, ma ormai il concetto è chiaro. E i ragazzi giapponesi sembrano troppo intenti a esplorare quel Paese delle Meraviglie. Quindi tutto bene.
Ci manca solo che gli altoparlanti sparino Jump dei Van Halen e da dietro le quinte esca Jane Fonda pronta per una lezione di aerobica, o si materializzi un My Little Pony che vomita arcobaleni. L’overdose da anni ’80 è costantemente dietro l’angolo e diventa un rischio molto concreto quando il responsabile degli oggetti di scena, Matt Marks, racconta a quali livelli di cura (e maniacalità) arrivi il suo lavoro: le bici dei ragazzi provengono da iconici brand di BMX in voga in quegli anni e sono personalizzate su ognuno dei personaggi, le lattine di Coca Cola non sono quelle originali del periodo, ma sono state ricostruite da zero sulla base di alcune comprate su e-Bay, gli stemmi cuciti sullo zaino di Dustin sono stati scelti uno per uno. E il production designer Chris Trujillo spiega che lo Starcourt non doveva solo sembrare un mall americano degli anni ’80, ma un centro commerciale inaugurato in Indiana nel 1985.
Dopo due stagioni oscurissime i creatori Matt e Ross Duffer hanno deciso che era ora di mescolare le carte (Magic) e alleggerire i toni, con dei nuovi episodi ambientati a luglio, tra primi amori e Sottosopra ormonali. «È la prima volta che vediamo Hawkins d’estate, siamo liberi dalla scuola, è tutto bellissimo… finché non succede qualcosa», anticipa Finn Wolfhard, che ogni giorno sul set deve sacrificare i riccioli per il taglio a scodella di Mike.
La prima volta che vedrete lui e Undici pomiciare no stop sarà un po’ disturbante, ma poi ci farete l’abitudine. Will Byers vuole giocare a Dungeons & Dragons, ma i suoi amici hanno chiaramente altro per la testa. Anche Lucas e Max sono una coppia: «C’è un nuovo stile in città, guardate come sono corti i miei shorts», si lamenta Caleb McLaughlin, che è vestito come Karate Kid con tanto di bandana in testa, perché Ralph Macchio è la passione della sua ragazza.
Stranger Things è una coming-of-age story, che ha capitalizzato il patrimonio culturale nerd fino a renderlo mainstream e raccolto quel sentimento, quel senso di meraviglia, che popolava sogni e incubi degli anni ’80. Puoi avere i mostri, la suspense, ma ciò che fa davvero la differenza sono la scrittura solidissima e i ragazzi. Dopo il casting, ogni personaggio non è stato ricostruito sulla base del suo interprete, ma «riscritto in modo che fosse più naturale per noi da interpretare», rivela Gaten Matarazzo, il più chiacchierone del gruppo. Sul tavolo ha appoggiato il berretto di Camp Know Where, il campo estivo da cui Dustin torna all’inizio della stagione.
Mentre nel centro commerciale gli atleti si mescolano con i punk, i fan di Hulk Hogan con quelli di Boy George e le cheerleader si fanno la permanente, la vostra bromance preferita, quella tra i due capelloni di Hawkins Steve e Dustin, continua, eccome. «Ai Duffer piace scrivere durante le riprese, per capire se il copione funziona davvero», spiega Gaten. «A un certo punto non sapevano bene cosa fare con i nostri personaggi, ma hanno visto una direzione e hanno rischiato». E pensare che Joe Keery, stesso ciuffo fluentissimo di Steve, era convinto che il suo personaggio fosse condannato: «Credevo che sarebbe morto, stritolato o mangiato dal mostro. E invece è cresciuto nella maniera meno ovvia, attraverso un legame con qualcuno che non avrebbe mai visto come amico. Steve è immaturo e Dustin è molto maturo. A volte sembrano una vecchia coppia sposata», ride.
Nella terza stagione Dustin passa un sacco di tempo da Scoops Ahoy, la gelateria del centro commerciale, dove Steve, costretto a indossare una ridicola divisa da marinaretto che mette a dura prova il suo fascino, lavora insieme a Robin, la new entry della serie interpretata da Maya Hawke. Sì, Maya è la figlia di Ethan Hawke e Uma Thurman, e mamma e papà hanno fatto una capatina sul set: «Stranger Things è la serie che guardiamo tutti insieme, ci unisce parecchio e annulla ogni differenza d’età, ma non avevo capito quanto fosse seguita, altrimenti me la sarei fatta addosso». Grazie a Robin il pubblico si divertirà a guardare la follia di Hawkins attraverso occhi completamente nuovi: «Ha poco tempo per capire quello che sta succedendo, ma è intelligente, curiosa, aperta e sarà molto d’aiuto», spiega.
Se Maya è la novità, la sorpresa si chiama Priah Ferguson. Chi? Erica, la sorella minore di Lucas, che, acclamata per la sua grinta e il suo sarcasmo nella seconda stagione, si è conquistata più spazio sullo schermo. Nei nuovi episodi capisce di avere molto più in comune con il fratello e i suoi amici nerd di quello che pensa: «Vi innamorerete di lei», promette Gaten. Priah si limita ad annuire e sorridere: per lei è la prima volta con la stampa.
I fratelli Duffer sanno bene che i loro attori stanno crescendo e hanno costruito delle storyline che riflettano questa maturità. «Un po’ sul modello di Harry Potter», commenta Finn. «Anche se quando hanno sentito che la mia voce era diventata particolarmente profonda c’è stato un po’ di panico», ridacchia Noah Schnapp, un Will Byers sempre meno piccolo e indifeso. Avrà finalmente un po’ di pausa dal Sottosopra? «Assolutamente no, nessuno di noi ha mai un momento di tregua: è Stranger Things!». Il coro spontaneo di Will, Mike e Lucas strappa un sorriso persino ai colleghi giapponesi. Ma non ci provate, niente selfie.