C’è Jovanotti: «Pino è il più grande dei grandi perché pensa sempre a cosa può imparare ancora», c’è Giuliano Sangiorgi che si emoziona intonando Je so’ pazz con la chitarra di Daniele, c’è Clementino che rappa in onore di “zio Pino”: «Salutam’ a Totò, Massimo (Troisi, ndr) e pure Eduardo (De Filippo, ndr)», c’è Ranieri che ricorda la forza dirompente di ‘Na tazzulella ‘e cafè e c’è persino Vasco che ammette: «Avrei voluto scrivere io alcuni di quei brani».
C’è l’anima del Nero a metà, del Masaniello della musica, dell’Uomo in Blues nel docufilm Pino Daniele: Il tempo resterà in uscita il 20, 21 e 22 marzo al cinema, in occasione del compleanno (il 19) del cantautore scomparso due anni fa.
E, a raccontarlo, ci sono soprattutto gli amici e i colleghi di una vita, i componenti della storica band napoletana del tour Vai mò (1981), riunita da Daniele nel 2008: James Senese (sax), Tullio De Piscopo e Tony Esposito (percussioni), Joe Amoruso (piano) e Rino Zurzolo (contrabbasso) che, insieme a Claudio Amendola, Enzo Decaro e al regista Giorgio Verdelli, autore di documentari e programmi musicali per la Rai come Unici, hanno presentato il film a Roma, alla Casa del Cinema.
Attraverso materiali inediti e interviste esclusive, il lungometraggio dipinge la rivoluzione di Pino Daniele perché, come spiega Decaro: «C’è stato un “avanti Pino” e un “dopo Pino” nel modo di vedere Napoli».
Tutto inizia con una telefonata al leggendario sassofonista James Senese: «Ha bussato alla porta di casa questo ragazzone con la “faccia da indiano”. Era impazzito ascoltando Napoli Centrale, voleva far parte del gruppo. Ci serviva un bassista e chiesi se aveva i soldi per un basso. Non li aveva, glielo comprai io. Da allora non ci siamo più lasciati: Pino è qui, forse voi non lo vedete, ma io sì».
Prima ancora di diventare il cantautore che ha portato il dialetto partenopeo in classifica, fondendo il blues con la canzone neomelodica, Pino Daniele era un musicista. Durante un’esibizione qualcuno tra il pubblico urla: «Impara a parlare» e lui risponde ridendo: «Non serve parlare, l’importante è saper suonare», Il suo approccio era «polifonico» come sottolineano nel film Ezio Bosso e Stefano Bollani: era capace di scrivere pensando alla gioia di tutti gli strumentisti.
«Abbiamo incluso quasi tutti brani live per scelta—spiega il regista Verdelli—La band del tour di Vai mo’ è la più grande band italiana di tutti i tempi. Nel 1981 facevano concerti pazzeschi: un pezzo di 4 minuti ne durava 12 dal vivo».
«Pino era un genio e noi avevamo un po’ più di esperienza—ricorda Tony Esposito—Con i nostri assoli trasgredivamo una regola che si stava consolidando negli anni ’80: per una questione di mercato le canzoni dovevano essere brevi. Ma sul palco può succedere di tutto: l’assolo finisce quando deve finire, la musica anche». E la magia che si è creata tra i componenti di questo supergruppo è ancora intatta per Joe Amoruso: «È come se fossimo stati scelti da un essere superiore».
«Pino aveva capito che quello era il momento di fare ‘a musica e valorizzava le nostre capacità—afferma Tullio De Piscopo—Forse agli occhi del pubblico ci ha reso ancor più bravi e a noi manca: adesso suoniamo con altri ma non ci troviamo».
«Facevamo il tifo per voi come foste i Pink Floyd o i Led Zeppelin—confessa Claudio Amendola, voce narrante del film—eravamo orgogliosi perché finalmente avevamo anche noi una band di quel calibro».
Oltre alle tante collaborazioni internazionali (da Al Di Meola a Eric Clapton), il documentario mostra anche alcune testimonianze rare e da brividi: dal video di Daniele mentre suona Quando per Massimo Troisi (che diventerà il tema di Pensavo fosse amore… invece era un calesse), al grande concerto in piazza del Plebiscito del 1981 dove, come ricorda Senese, «C’erano persone che piangevano trascinate dalla forza di quella musica, qualcuno si è anche sentito male», al funerale di Pino quando la gente canta Napul’ è per le strade.
«Ha creato un ponte tra Napoli e il resto del mondo, raccontando tutte le sfumature di una città di cui prima conoscevamo solo il colera e la camorra» continua Amendola e, rivolgendosi al regista: «Hai tagliato la parte in cui dico che Pino era un chitarrista meglio di Eric Clapton».
«Non si può parlare male di Dio», risponde Verdelli.
«Forse mi ero infervorato», sorride Amendola. O forse no.