«Trovarlo al telefono non è mica una cosa facile, nemmeno per gli amici». Inizia così prima risposta di Ricky Gianco, a cui chiediamo se sentirà Adriano Celentano per fargli auguri per i suoi 80 anni, oggi, il 6 gennaio. Di cinque anni più giovane, lombardo come il Molleggiato, ma nato a Lodi, ha iniziato a cantare giovanissimo alla fine degli anni ’50 ed è stato uno dei primi a portare brani e sonorità del rock anglosassone nel nostro Paese. Nel 1961 Gianco entrava nel Clan di Celentano, da cui sarebbe uscito un anno e mezzo dopo «per disaccordi su questioni contrattuali», poi una carriera con notevoli successi, composti per sè e per gli altri, come Pugni Chiusi, resa immortale da Demetrio Stratos.
«L’ultima volta che l’ho sentito è stato qualche mese fa, e ho avuto l’occasione di chiedergli una cosa che non gli avevo mai chiesto: se avesse ancora da qualche parte la mia registrazione di Pregherò». La storia di quel pezzo racconta molto di quegli anni pionieristici, i primi ’60. «All’epoca quasi nessuno in Italia conosceva la musica internazionale: il rapporto di Adriano con il rock si fermava, o quasi, a Rock Around the Clock di Bill Haley, che era arrivato come colonna sonora del film Il seme della violenza, e faceva l’imitatore di Jerry Lee Lewis negli show di Tony Renis».
Ma aveva capito che stava per arrivare un’onda enorme, e voleva cavalcarla a modo suo. «Io avevo avuto la fortuna di entrare giovanissimo in Ricordi, dove mi passavano i dischi in testa alla classifica Billboard, per ascoltarmeli da casa. Di notte sentivo Radio Luxemburg, epigona delle nostre radio libere, e lì mi imbattei in Stand by Me, di cui realizzammo la versione italiana, con un testo che rievoca alcune delle frequenti “crisi mistiche” di Adriano».
Gianco incise la prima versione, che non fu mai pubblicata, perché Celentano si mise in proprio e portò la canzone al successo, grazie al suo talento e alla sua popolarità. «Rimasi pietrificato, avevo vent’anni. Ma Adriano, geniale e machiavellico come è sempre stato, mi ha detto che lo aveva fatto per lanciare la mi carriera. Il pezzo si chiudeva con “vedrai, vedrai”, e da lì avremmo fatto iniziare il “secondo tempo”, a cura mia». Per quanto riguarda la possibilità, almeno privatamente, di riascoltare quella prima versione “made in Gianco” di Pregherò, nulla da fare. «Adriano ha detto di aver perso un sacco di materiale in un incendio del suo magazzino».
Ma Celentano mantenne quell’ultima promessa, e nacque Vedrai che passerà, il primo disco in assoluto del Clan, la casa discografica che, a riprova della personalità traboccante e del suo “ribellismo” inesauribile, il Molleggiato aveva fondato dopo i primi successi con Jolly. «Il ricordo di quegli anni è affettuoso. È stato un periodo magico: facevamo tutto assieme nell’ufficio che Adriano non aveva, ossia la sua casa in via Zuretti a Milano. Eravamo chiusi in quelle quattro mura per tutto il giorno: ci occupavamo della musica, della stampa e della promozione degli artisti. Il Clan è stata prima etichetta indie italiana».
Già allora Celentano mostrava una poliedricità e una visionarietà che lo hanno portato a ricoprire un ruolo unico nel mondo dello spettacolo italiano, anche grazie alla sua capacità di gestire la propria immagine. Nella sua carriera ha venduto oltre 200 milioni di dischi, divenendo popolare anche all’estero, ha fatto programmi indimenticabili in tv, riscrivendone i canoni con la sua personalità esuberante, è apparso in decine di film, molti dei quali campioni di incassi, e divenuto negli ultimi anni, pensate che tempi, un riferimento politico con le sue battaglie.
«Ha sempre capito le cose prima: come l’importanza dell’ecologismo, che già cantava in Mondo in Mi 7a e Ragazzo della via Gluck. D’altra parte allora c’era la DC, e la cementificazione del paesaggio non era un tema da poco».
Un showman e un artista autentico, un anarchico che ha attirato su di sé le definizioni più varie, dal “cretino di successo” di Giorgio Bocca al “re degli ignoranti”, come lui stesso si era incoronato, a sottolineare le tante contraddizioni, essere élite e uomo del popolo allo stesso tempo, che in lui hanno sempre trovato una soluzione. «Merito del suo magnetismo, con cui cattura la gente. Una volta ho incontrato Frank Sinatra a Roma in studio di registrazione, e, al suo passaggio, mi sono messo contro il muro, perché le ginocchia mi tremavano dopo per avere incrociato il suo sguardo. Lo stesso vale per Adriano», ricorda Ricky Gianco.
A questa dote, univa tanto dedizione alla causa. «Nella vita e sul lavoro come nel lavoro è imprevedibile, ma non lascia nulla al caso: pensa e ripensa a ogni dettaglio, e quando prende una decisione la porta fino in fondo. Così è riuscito a preservarsi, a non fare quasi mai scelte sbagliate e rimanere sempre sulla cresta dell’onda».
Ma soprattutto, Celentano ha creato un proprio stile, che, come la Settimana Enigmistica, “vanta innumerevoli tentativi di imitazione”. «Come le celebri pause di Fantastico, che nascono dalla sua scarsa memoria. Lui intuiva che una cosa funzionava e calcava la mano, e in quel modo funzionava ancora di più. Andava avanti come un carro armato».
Nella musica «ha sempre fatto solo quello che si sentiva. Per lui non era importante seguire la metrica, tanto meno le regole base della scrittura di un testo. Non cercava mai la quadratura: se voleva dire una cosa lo faceva senza farsi altre domande. In questo era come un bluesman, oppure il Bob Dylan di Tambourine Man e i Byrds di Turn! Turn! Turn!, pezzi squadrati, che se ne fottono di ciò che l’ascoltatore si aspetta di sentire. La musica non è matematica per Adriano».
E a dovere scegliere i pezzi più significativi della sua carriera lunga e dorata? «Come interprete dico Sei rimasta sola, perché è mia e sono fiero che lui l’abbia cantata, e Azzurro, un capolavoro che nemmeno lui si è sentito di modificare, talmente era perfetta», conclude Ricky Gianco. «E poi Svalutation, presa paro paro da Lotta Lovin’ di Gene Vincent, o Impazzivo per te, che nulla c’entra col rock, ma che dimostra quanto lui sia sempre stato avanti anni luce».