Foto di Alan Gelati
Marco Travaglio
Direttore
de Il Fatto
de Il Fatto
- Quante querele ha preso nella vita?
- Ho perso il conto. Fino a un paio di anni fa circa 250 tra cause civili e penali. Da quando sono direttore responsabile siamo credo intorno alle 300, visto che rispondo anche delle cause che fanno ai miei giornalisti.
- Per Alessandro Sallusti “le cause per omesso controllo sono un’assurdità, visto che nessun direttore responsabile può leggere tutto quello che va in pagina”. Cosa ne pensa?
- La nostra è una responsabilità di natura formale, ovvio che non possiamo leggere tutto, ma se non vuoi questa responsabilità, allora non fai il direttore responsabile, ti scegli un altro ruolo. Inoltre, nel momento in cui io sottoscrivo un patto di manleva con i giornalisti, qualcuno deve rispondere per l’azienda. Il problema non è questo.
- Qual è allora?
- Secondo me chi intende fare causa per un errore del giornale, prima di rivolgersi ai tribunali dovrebbe essere obbligato a fare richiesta di rettifica. Chi sbaglia deve rettificare e scusarsi utilizzando lo stesso spazio che si era utilizzato per dare la notizia errata. Noi de “Il Fatto” quest’anno per esempio abbiamo intervistato l’ex parlamentare del PCI Nino Mannino convinti che fosse Calogero Mannino. Ci siamo scusati dando alla rettifica più spazio e più visibilità che all’intervista stessa, forse.
IL PEGGIO
È ACCADUTO
È ACCADUTO
quando con le nostre inchieste abbiamo toccato
MATTEO RENZI
- La rettifica però non può essere la via d’uscita per qualunque errore.
- È chiaro. Se fai una campagna di anni per dire che Di Pietro è un tangentaro, poi non puoi mica fare una rettifica e cavartela così. Da noi esiste il fenomeno unico al mondo di giornali che non sono giornali e massacrano le persone con notizie false, con un editore alle spalle che paga i danni perché tanto anche se deve pagare avvocati e risarcimenti poi lucra su altri tavoli, e questo è qualcosa che indebolisce la battaglia. Il problema nasce con Berlusconi e tutti quelli che sono al servizio di Berlusconi, che scrivono infamie infondate e se ne fregano delle cause, perché tanto paga il padrone. Poi finisce che accumulano condanne penali e magari arriva la galera, come per Sallusti.
- E per i reati di opinione?
- Quelli li dovrebbero sbaraccare. Sia chiaro. Quando i Sallusti e i Ferrara dicono che su questo ho ragione, come se la pensassimo allo stesso modo, dovrebbero aver chiaro che, come per esempio dicevo prima, scrivere che Di Pietro prendeva tangenti, come alcuni di loro hanno fatto per anni, non è un’opinione. È una falsità, che è un altro conto. Michael Moore ha scritto un libro su Bush e famiglia intitolato Stupid white men”, ma nessuno l’ha mai querelato. Qui sarebbe un processo per diffamazione certo.
- Un esempio autobiografico sul reato d’opinione?
- Tempo fa ero ospite da Fazio, ho detto che Schifani frequentava persone condannate per mafia, che se uno guardava l’elenco dei presidenti del senato da Spadolini a Schifani c’era una picchiata. “Di questo passo il prossimo presidente del Senato sarà una muffa o un lombrico…” aggiunsi. Schifani mi fece causa, il giudice mi assolse perché avevo detto che Schifani frequentava dei mafiosi ma mi condannò a risarcirlo con 15.000 euro perché gli avevo dato della muffa. (che poi non gli avevo neppure dato della muffa, ho detto che il prossimo presidente sarebbe stato una muffa…)
- Secondo Vittorio Feltri il reato di diffamazione si dovrebbe risolvere solo in sede civile, con eventuali risarcimenti danni.
- No, nel modo più assoluto. Se devo pagare 5 anni di stipendio a qualcuno, preferisco farmi sei mesi di galera.
- La vicenda giudiziaria più faticosa?
- Quella con Cesare Previti. Scrivevo per “L’indipendente” e nel 1995 feci una sorta di riassunto della sua carriera. Riferendomi agli anni ’80/90 scrissi che all’epoca già era indagato, che era un futuro cliente di procure tribunali. Lui mi fece una causa civile nel ’96 e nel frattempo “L’Indipendente” fallì, quindi mi ritrovai senza avvocato del giornale. Per una serie di ragioni, non furono prodotti né la rassegna stampa che avevo preparato, né il registro degli indagati dove il suo nome era iscritto dal 29 settembre ' 95. Fui condannato a scucire 79 milioni di lire. Non li avevo e siccome nel civile i soldi li devi dare subito, mi fu pignorato un quinto delle stipendio, per anni.
- Continua
- Lo strumento della lite temeraria funziona?
- Quello andrebbe incrementato. La stragrande maggioranza delle querele non sono per errori ma per cazzate e tentativi di spaventarti. Col tempo, chiaramente, più cause hai e meno ti spaventi, anche perché tanto pensi: io tutti quei soldi non li ho. Le prime querele spaventano molto, poi le buste verdi non le noti più. Come si scoraggiano? Con la cauzione. Tu fai causa e chiedi 100.000 mila euro, bene. Però devi mettere il 10 per cento sul tavolo, se perdi la causa, perdi anche la cauzione. Andrebbe associato il concetto di risarcimento per lite temeraria, perché se tu mi denunci, io mi preoccupo, non sono più libero di occuparmi di te, devo nominare un avvocato, quindi devi rischiare anche tu. O comunque essere certo di vincere la causa.
- Diciamoci la verità: denunciare alla fine conviene.
-
Sì, chi rischia è quasi sempre il querelato. Il paradosso è che se ti denunciano e la denuncia viene archiviata perché ritenuta infondata, l’avvocato te lo paghi tu. Se vai a processo invece e ti assolvono, magari il giudice condanna il denunziante a risarcire le spese, ti va decisamente meglio. Quindi, se sei rinviato a giudizio hai speranza di essere risarcito, con l’archiviazione no.
Assurdo. I nostri codici sono scritti su misura per imputati colpevoli, non per gli innocenti che incappano in un processo. Un vero garantismo valido per tutti dovrebbe stabilire che se mi trascini in tribunale e perdi, gli avvocati me li paghi. - Le querele dei giudici fanno più paura?
- Ne ho avute parecchie. L’esperienza mi ha insegnato che è la categoria meno corporativa che ci sia, non vedo tutta questa colleganza di cui parlano altri. Casomai il contrario: fanno a gara a chi ce l’ha più lungo, si divertono a dimostrare ai colleghi chi è più bravo, fanno le pulci l’uno al lavoro dell’altro.
- Sei anche editore del giornale che dirigi. Quando a un tuo giornalista capita una grossa causa come ti muovi?
- Il peggio è accaduto quando con le nostre inchieste abbiamo toccato Matteo Renzi. Non era accaduto nulla di simile neppure quando abbiamo toccato Berlusconi. Noi siamo spesso sul crinale della privacy, abbiamo fatto di tutto e di più convinti come siamo che la privacy praticamente non esista se il tuo privato si riflette nella vita pubblica, fatto sta che l’ultima volta che abbiamo toccato Renzi c’è stata addirittura una perquisizione nella sede del giornale. Parlo della perquisizione del luglio scorso (quella legata all’inchiesta di Marco Lillo sul caso Consip, con l’ormai famosa telefonata tra Renzi e il padre Tiziano), quando sono arrivati venti uomini della guardia di finanza, hanno sequestrati i computer dello stampatore, perfino quello dell’ art director. Questo senza minimamente tener conto del fatto che la fonte è sempre coperta da segreto professionale, per cui una perquisizione finalizzata a scoprire la fonte non è lecita.
- Come è finita la storia?
- Abbiamo impugnato il decreto e fatto ricorso in cassazione e la cassazione ci ha dato ragione. La procedura era illegittima, fatto sta che tra la perquisizione e la sentenza della cassazione sono passati sei mesi, nel frattempo la procura ha potuto frugare nel materiale sequestrato. Tutto questo può scoraggiare le fonti a parlare, è un danno enorme per i giornalisti.
- Un giornalista può andare in galera?
- Un giornalista che pubblica scientemente notizie false DEVE andare in galera.
- intervista di Selvaggia Lucarelli